Non è la morte della musica, ma solo la fine di un’epoca
I cambiamenti dell’industria musicale ci insegnano come ottimizzare il lancio un nuovo prodotto o servizio
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Oggi parleremo di quello che ci insegna la musica, ma prima volevo girarvi un invito.
Mercoledì a Milano
Mercoledì 10 aprile dalle 19:00 nello spazio di 21 House of Stories Navigli a Milano, intervisterò dal vivo Gabriele Vagnato che, con più di 1 milione di follower su Instagram e Youtube, e 4 milioni su TikTok, è uno dei protagonisti della creator economy italiana.
Parleremo di contenuti, video e creator. Sarà una conversazione aperta e ci sarà spazio anche per le domande del pubblico.
L’ingresso è gratuito con registrazione. Per riservare un posto clicca qui o usa il tasto qui sotto.
Grazie alla produzione di NOP-NOP e alla collaborazione di 21 House of Stories.
La morte della musica, e la fine di un’epoca
“Il lavaggio del cervello ha funzionato e ora le persone pensano che la musica sia gratis”, lo scrive il musicista inglese James Blake su Twitter e, subito, il suo status diventa virale.
Lo sfogo tocca un nervo scoperto del mercato discografico che, negli ultimi anni, è cambiato così rapidamente da lasciare confusi, non tanto i discografici, quanto gli artisti.
Molti altri musicisti si sono uniti subito alla protesta, tra questi l’onnipresente Kanye West e, in Italia, il rapper Salmo che ribadisce: "Le piattaforme di streaming ci pagano un cazzo".
Quello che succede ai musicisti succede anche a tutti gli altri. Non lo dico io ma lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling, che spiega come l’industria musicale anticipa sempre i problemi e le opportunità che tutti gli altri si troveranno ad affrontare.
Per questo analizzare i cambiamenti e lo stato della discografia serve a capire come promuovere un contenuto online, che si tratti di una canzone, un libro, un video, un evento o qualunque altro formato.
In questo post parleremo di:
Come controllare la distribuzione di un contenuto
Come costruire una community prima del lancio di un prodotto
Su quali settori investire in un’epoca di abbondanza digitale
Cosa fare per estrarre valore dai propri contenuti
Essere un artista oggi
Secondo James Blake “I musicisti dovrebbero guadagnare solo facendo musica”, ma, dato che lo streaming non è così remunerativo, questi sono costretti ad ingegnarsi in altri modi: provano ad andare virali su TikTok, fanno interminabili tour di concerti, o attività collaterali di ogni genere.
Purtroppo per Blake e per Salmo il treno è partito e non si torna indietro. La musica è diventata una commodity, un bene che consumiamo in quantità, ma senza badare alla sua provenienza, come succede con l’acqua o lo zucchero.
Sono state proprio le vituperate piattaforme streaming (Spotify e soci) a salvare il mercato discografico dalla voragine in cui era caduto dopo l’arrivo di Napster e del file sharing nei primi 2000. Nonostante questo gli artisti continuano a pensarne tutto il male possibile.
Daniel Ek, fondatore e CEO di Spotify, era stato ricoperto di insulti da diverse rockstar quando, qualche anno fa, aveva descritto il cambio di scenario con parole che sono rimaste inascoltate: “Alcuni artisti che in passato avevano fatto bene, potrebbero non ottenere gli stessi risultati in futuro. Non sarà possibile registrare musica una volta ogni tre o quattro anni, non possono pensare che basterà [...] Gli artisti che oggi hanno successo si sono resi conto che è fondamentale creare un legame continuo con il proprio pubblico. Si tratta di pubblicare materiale, raccontare una storia attorno all’album e continuare a dialogare con i propri fan”.
Per molti musicisti quello che dice Ek è difficile da accettare perché contraddice il concetto di artista che abbiamo conosciuto negli ultimi 200 anni. L’Artista, quello con la maiuscola, è colui che, distante dai turbamenti del mondo, si muove in un piano spirituale diverso da quello in cui viviamo e crea a contatto con forze a cui solo lui ha accesso.
La rivoluzione digitale ha distrutto questo feticcio romantico, ricordando a tutti, artisti compresi, che non esistono oracoli con leggi diverse da quelle degli altri mortali, e tutti ci dobbiamo sbattere allo stesso modo per arrivare a fine mese.
Colpa della tecnologia
Perché la musica è diventata una merce da consumare un tanto al chilo? La colpa è ovviamente di Internet.
Una volta il successo di un contenuto dipendeva da chi ne controllava la distribuzione, era lui a selezionare i fornitori e a decidere cosa poteva essere consumato dal pubblico. Con l’arrivo della rete, che ha regalato a tutti una distribuzione a costo zero, la situazione si è capovolta.
Ad esempio i giornali erano il mezzo con cui un grande numero di pubblico (abbondante) poteva leggere un limitato numero di notizie (scarse e preziose). Stessa cosa per le reti televisive con i video (poche frequenze e pochi soggetti con capacità produttive) o le case editrici con i libri (capacità distributive e controllo degli autori).
Oggi i contenuti sono abbondanti e il costo di distribuzione è zero, e dunque chi li aggrega non guadagna più sfruttando il rapporto con i fornitori. L’unica cosa che conta è l’esperienza che ne hanno gli utenti, la cui attenzione scarsa è sempre più difficile da catturare.
Nel solito circolo vizioso di Internet le piattaforme che riescono ad attrarre la maggior parte di utenti (nel nostro caso ascoltatori) avranno anche la maggior parte di fornitori (canzoni) e, migliorando l’esperienza di chi le utilizza, rafforzano ulteriormente la loro posizione dominante (Spotify).
Nella filiera dei contenuti musicali, il potere è passato dalle mani degli artisti e dei loro distributori (case discografiche), a quello delle piattaforme che li aggregano e, soprattutto, in quelle delle persone che li consumano.
Power to the people
Lo scontento degli artisti nasce da questo cambiamento paradigmatico per cui bisogna produrre contenuti per chi ha il coltello dalla parte del manico: gli ascoltatori di musica, gli unici che possono decidere il successo o il fallimento di una canzone.
Se l’obiettivo è attirare l’attenzione del pubblico allora diventano necessari i balletti su TikTok e le strategie social. Come tutti gli altri produttori di contenuti digitali, anche i musicisti, hanno scoperto di essere diventati dei creator, con tutti i vantaggi e gli obblighi del caso.
I creator hanno poco a che fare con la definizione di artista romantico dei secoli scorsi, somigliano invece a degli atleti. Come gli sportivi anche i creator non hanno il lusso di potersi fermare a piacimento, devono tenersi in esercizio e performare al meglio delle loro possibilità.
L’artista e curatore Brad Troemel aveva descritto questo mutamento già nel 2013, coniando la definizione di “Aesthlete” per descrivere “Un produttore culturale che mette da parte la tecnica e gli atteggiamenti meditabondi sostituendoli con l’immediatezza e la produzione rapida”.
Nel suo saggio “Athletic Aesthetic” Troemel spiega che, se un tempo bisognava produrre arte per avere un proprio pubblico, oggi le cose sono capovolte e avere un pubblico pronto a consumare il nostro prodotto è la conditio sine qua non da cui partire.
Questa fanbase potrà esistere solo se l’avremo coltivata nel tempo, grazie ad un flusso continuo di produzioni in grado di creare una community capace di supportare il nostro brand personale.
Tra gli imprenditori tecnologici va di moda l’espressione “build in public” che definisce il processo di costruire un prodotto tecnologico sotto gli occhi dei suoi possibili futuri utilizzatori. Il racconto del dietro le quinte diventa un contenuto che crea attenzione ancora prima dell’esistenza di un prodotto finito.
Nel mondo capovolto la corsa diventa più importante del traguardo finale.
La lezione del rap
Quella di “Aesthlete” non è una categoria filosofica intangibile, ma una realtà che vediamo davanti ai nostri occhi, soprattutto in alcuni ambiti musicali.
Una superstar del rap come Guè sembra non riuscire a smettere di incidere nuove canzoni: tra album, singoli, mixtape, collaborazioni e reunion (con la sua vecchia crew dei Club Dogo) il rapper crea continuamente nuovo content da distribuire in qualunque maniera.
In questo modo Guè aumenta la dimensione del proprio pubblico, a cui vende merchandising, gioielli (attraverso il brand Nove25) o biglietti per concerti. Assieme ai Club Dogo hanno appena messo a segno 10 date sold out al Forum di Assago di Milano e hanno un live a San Siro in arrivo.
Agli artisti che si lamentano di dover fare “un doppio lavoro”, incidere canzoni e sobbarcarsi la loro promozione, ricordiamo che grazie a questo sforzo stanno garantendo la loro futura sopravvivenza.
Gli artisti abbastanza intelligenti da operare come “Aesthlete” realizzano quello che viene definito “Il paradosso editoriale” secondo cui, “Le opportunità ti verranno incontro in diretta proporzione alla tua abilità di operare senza di loro”.
Più gli artisti si dimostrano capaci di appropriarsi del rapporto con la propria audience, creando community intorno i propri contenuti, e più riescono a catturare il valore rimasto nella musica, sottraendolo agli intermediari con cui hanno a che fare, dalle case discografiche fino alle piattaforme.
Scarsità, scarsità ovunque
Quando un contenuto si fa abbondante, come successo alla musica, bisogna concentrarsi su ciò che rimane scarso.
Continuano ad essere rari: i grandi successi (difficili da creare a tavolino e replicare), i fandom e le community (costruite con fatica e dopo una grande quantità di contenuti) o gli eventi dal vivo (per loro natura non digitalizzabili o scalabili).
Sono questi gli ambiti in cui conviene reinvestire il capitale di attenzione guadagnato distribuendo musica remunerata in maniera inefficiente.
Lo ha capito Kanye West che, mentre si lamenta delle piattaforme, escogita una soluzione al problema. I listening party organizzati a seguito dell’uscita del suo ultimo “Vultures 1” sono una risposta ingegnosa alla svalutazione della musica.
Dopo che il suo disco è balzato in cima alle classifiche streaming, Kanye ha usato l’attenzione degli ascoltatori per vendere qualcosa che Spotify non può intermediare, invitando i fan ad ascoltare il nuovo album assieme a lui e agli artisti con cui ha collaborato.
Non si tratta di un concerto, ma soltanto di un ascolto in compagnia dell’artista. Kanye ha estratto valore dal successo della propria musica costruendo un’esperienza fisica per cui il proprio fandom è disposto a pagare fior di quattrini (i biglietti per le date italiane arrivavano fino a 200 euro).
Nuovo mondo, vecchi errori
“Genio Kanye!” ma anche “Scemo Kanye!” che, dopo una pensata brillante, ne ha avuta una ingenua minacciando di vendere il prossimo “Vultures 2” solo nel suo sito personale, dimenticando l’assunto da cui siamo partiti, cioè che la musica è una commodity.
Il genio è uscito dalla lampada e la musica è destinata a circolare liberamente online in qualunque forma. Internet è la più grande macchina fotocopiatrice del mondo e duplicare una canzone in MP3 è così facile da essere quasi offensivo.
L’errore di Kanye è lo stesso di James Blake che ha investito il patrimonio di attenzione guadagnato con la sua sfuriata social in un’impresa probabilmente fallimentare.
Blake ha lanciato in questi giorni Vault.fm, una piattaforma che “Promette di rivoluzionare il rapporto tra artisti e fan”, perché, sempre secondo Blake, “Non si può pensare di acquistare tutta la musica del pianeta per 10 dollari al mese”.
Il mondo in cui gli artisti potevano decidere come e quando distribuire i propri contenuti non esiste più e oggi è il pubblico che detta il ritmo della musica.
Lo stesso pubblico che è ben felice di poter ascoltare tutto quello che vuole ad un prezzo modico, e, purtroppo per Blake e per il suo nuovo rivoluzionario portale, le cose non sono destinate a cambiare a breve.
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Illuminante e bellissimo.