Il paradosso editoriale
Più un talento è in grado di farcela da solo e più tutti proveranno a metterlo sotto contratto. Ci avete mai pensato?
Abel vive in Canada e produce musica. Pubblica i primi pezzi su YouTube attirando subito l’attenzione di fan e addetti al settore. Le case discografiche lo avvicinano ma Abel decide di non accettare le proposte e continua a creare la propria musica in autonomia, fondando addirittura una piccola casa discografica.
In questa maniera registra tre mixtape nel giro di un anno, tutti distribuiti solo online e in maniera gratuita. I brani gli fanno guadagnare l’ammirazione di superstar come Drake oltre che della stampa specializzata. Dopo aver diffuso gratuitamente decine di canzoni e costruito una solida base di fan Abel firma finalmente il suo primo contratto discografico con una major.
Quando Abel fa musica si fa chiamare The Weeknd e oggi è una delle più grandi star della musica pop mondiale. La storia che vi ho raccontato risale al 2011 ed è stato uno dei primi casi di un nuovo modo di imporre regole diverse all’industria discografica.
Da allora sono passati 12 anni, che nel tempo di internet sono un’era geologica, e le cose sono ulteriormente accelerate. In Italia lo spiega bene Salmo in questa recente intervista dove ammette candidamente: “Quanti artisti hanno messo due canzoni su Spotify e sono diventati più famosi del vincitore di X Factor? È tutto lì, è già scritto, perché non lo vedi?”
L’editoria in crisi
Non si tratta di un fenomeno legato soltanto alla musica ma accade in ogni comparto della creazione di contenuti: scrittori, artisti e performer decidono di pubblicare il proprio lavoro concentrandosi sul costruire un pubblico senza l’ausilio di nessuno dei tradizionali mediatori: casa editrice, discografica o emittente televisiva che sia.
Lo scrittore Ted Gioia nel suo blog per definire il fenomeno parla di paradosso editoriale. “Le opportunità ti verranno incontro in diretta proporzione alla tua abilità di operare senza di loro”. Detto altrimenti: più dimostri di non aver bisogno di nessuno e più ti verranno a cercare per darti dei soldi. Se una volta gli artisti provavano a svoltare firmando con grandi editori, oggi sono questi ultimi a voler imparare dai creator come emergere in mezzo al caos.
L’editoria sta affrontando una crisi d’identità. Case editrici e discografiche così come emittenti televisive hanno la necessità di ritrovare un ruolo centrale nella società ed essere appetibili verso una generazione di talenti che hanno la sensazione di poter fare a meno di loro.
Questo non è un pensiero così strano: da anni l’industria musicale si è concentrata su TikTok per trovare nuovi artisti, seguita a ruota dalla televisione che prova ad arruolare (con fatica) influencer per rinnovare il proprio parco di presentatori e l’editoria che tenta di trasformare autori di newsletter in creatori di best seller. Bisogna affidarsi a ciò che ha già dimostrato di funzionare sul campo perché la creatività ha perso, ricordate?
Vieni per il servizio e rimani per la rete
Uno dei modi più convincenti che l’editoria ha trovato per aggiungere valore ai propri prodotti è quello di creare reti. Incrociare il lavoro dei singoli artisti migliora le possibilità di distribuzione oltre che la capacità di creare più contenuto. Ecco allora spuntare in campo musicale infiniti featuring tra rapper o un clamoroso Blanco pronto a duettare con Mina.
In campo video e performativo ci sono le TikTok house dove il valore dei creator è aumentato dalla possibilità di incrociarsi e sovrapporre il proprio pubblico con quello dei colleghi, dando la possibilità di produrre più video e arrivando dove altrimenti non si riuscirebbe rimanendo nella propria cameretta.
La partita si gioca sul rendere scopribili i talenti che sono già in casa più che, come in passato, nella loro formazione o finanziamento. L’attività è la stessa in cui si impegnano le piattaforme tecnologiche: da TikTok con il suo algoritmo evoluto ai suggerimenti di Netflix. Tutti promettono di consigliarci ciò che ci potrebbe piacere ma che ancora non conosciamo.
La logica è quella secondo cui “vieni per il servizio e rimani per la rete” da tempo applicata in ambito tecnologico, in special modo dai social network. Instagram ad esempio attira gli utenti dando la possibilità di postare o editare le proprie foto e li trattiene permettendo di vedere cosa postano amici e celebrità all’interno della rete che viene costruita.
Il paradosso editoriale è la principale ragione del panorama culturale frammentario in cui siamo immersi. Nel momento in cui gli editori, che sono da sempre collettori di contenuti, perdono la propria autorevolezza, tutti i comici, performer, musicisti e scrittori si disperdono in un’infinita serie di rivoli difficilmente rintracciabili e gestibili. Ogni singolo creator, musicista o blogger diventa un'entità autonoma che corre in parallelo a tutti gli altri.
La fine della monocultura
Questo caos è un problema per chi crea contenuti e li vuole distribuire ma anche per chi ha necessità di raggiungere un target preciso come gli inserzionisti pubblicitari. Nel momento in cui non c’è certezza di avere una percentuale abbastanza grande di occhi puntati nella stessa direzione anche il mercato commerciale va in crisi.
L’ultima roccaforte del mainstream capace di resistere a questi assalti è la cara e vecchia televisione. Solo lei riesce a garantire una massa critica di spettatori in grado di superare l’infinita gamma di soluzioni messe a disposizione dal digitale. Quando è necessario parlare alla casalinga di Voghera lo schermo televisivo è ancora il luogo migliore per rivolgersi alla pancia del paese, soprattutto in Italia.
Anche in ambito televisivo però le conseguenze del paradosso editoriale iniziano a farsi sentire e non è un segreto che le platee delle prime serate diminuiscono di anno in anno come ammesso anche dalla presidente della RAI Marinella Soldi.
Nel momento in cui mancano punti di contatto universalmente condivisi tutto diventa soggettivo. Sarà capitato anche a voi di leggere i commenti dei boomer che su Facebook chiedono continuamente “E questo chi è?” anche se si sta parlando del super ospite internazionale di Sanremo o del Presidente del Consiglio.
Uno scorcio di questo presente alternativo l’ho avuto qualche settimana fa partecipando all’evento milanese dei Webboh Awards in cui si premiavano i migliori creator italiani. Girando per la sala mi sono imbattuto in molti tra i miei TikToker preferiti che risultavano però totalmente sconosciuti ad una collega che era con me. Intanto lei fotografava altri personaggi che ugualmente non erano mai comparsi nel mio feed.
Eravamo nello stesso luogo fisico ma i riferimenti di ogni persona presente erano parecchio diversi. L’unica indiscussa star della serata era Barbara d’Urso, ospite d’onore e simbolo di una notorietà televisiva che è sempre più difficile replicare.
Stiamo passando da un immaginario condiviso ad un insieme di community e nicchie. Secondo Digiday “Il 65% della Gen Z concorda sul fatto che il contenuto che è rilevante per i propri interessi è più importante di quello di cui tutti parlano. Lo stesso report ha anche trovato che il 55% della Gen Z guarda contenuti che non interessano a nessun'altra persona di loro conoscenza”
La battaglia per la rilevanza si fa sempre più ardua, non solo perché la quantità di contenuto prodotto e distribuito è fuori da ogni controllo, ma anche perché riuscire ad avere un argomento di cui discutere con i colleghi alla macchinetta del caffè è una preoccupazione che le nuove generazioni non hanno.
Molte piattaforme si ostinano a distribuire i propri film nelle sale cinematografiche in una finestra di tempo anche breve proprio per cercare di ricostruire questo momento di visione condivisa, come tempistiche e valori, che la cultura on demand ha smantellato.
Media infiniti
Qualche anno fa Anita Elberse, professoressa di Business Administration ad Harvard, scriveva il suo libro Blockbusters in cui spiegava come pochi grandi investimenti ben assestati fossero la chiave per trionfare nell’ambito dell’intrattenimento, dal cinema allo sport. Il testo nasceva come risposta al precedente La coda lunga scritto da Chris Anderson che poco prima aveva presentato uno scenario opposto. Per Anderson internet è uno scaffale infinito dove a fare la differenza è la somma di tante piccole unità, più che un manipolo di contenuti di successo molto concentrati.
Il pendolo continua ad oscillare tra questi due estremi: concentrazione e frammentazione. Oggi viviamo un periodo in cui i blockbuster continuano ad esistere senza però essere numerosi come un tempo e la coda lunga è sempre più lunga senza guadagnare in rilevanza.
Complice l’arrivo dell’intelligenza artificiale qualcuno parla di Endless Media, una ulteriore super-accelerazione nella produzione di contenuti (scritti, ma anche musica e video) che porterà all’estremo questa tendenza. Quando la curva della quantità si impenna verso l’asintoto la frammentazione tende all’infinito.
Anche questa newsletter, Scrolling Infinito, è figlia dello stesso paradosso editoriale. Rendere disponibile online in maniera gratuita una risorsa consultabile e aggiornata è stata la maniera più veloce per creare una base di persone interessate ad un tema preciso su cui costruire un progetto articolato. Un po’ come fanno i rapper pubblicando un mixtape dietro l’altro o gli Youtuber con i loro vlog giornalieri.
Se mai scriverò un altro libro, sempre che la parola significhi ancora qualcosa, partirà da quanto costruito attorno questa newsletter. Anzi a pensarci bene ho un’idea che mi passa per la testa, ma di questo forse parleremo meglio tra qualche tempo.
Parliamo di contenuti
Se vuoi approfondire i temi di Scrolling Infinito e confrontarti su contenuti e strategia nella tua agenzia, azienda o scuola scrivimi a andrea.girolami@tiscali.it (mail vintage, lo so) e ne parliamo volentieri.
Ho già avuto il piacere di presentare Scrolling Infinito in agenzie come Sketchin, Gummy Industries, Imille, Undesign o scuole come IULM, INCOM Università di Bologna, ALMED Università Cattolica e Master Publitalia.
Segnalibri
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