L’intelligenza artificiale ha bisogno di direttori d’orchestra
Presentare è più importante che fare, e le macchine lo sanno
Qualche anno fa Danny Boyle ha girato un film su Steve Jobs che non era per niente male. Ad un certo punto Steve Wozniak, interpretato da un credibile Seth Rogen, si scontra con l’algido Jobs che ha il volto di Michael Fassbender. “Non sai scrivere un codice, non sei un tecnico né un progettista, non sai nemmeno come piantare un chiodo. Allora come mai dieci volte al giorno leggo che Steve Jobs è un genio? Che cosa fai tu?”. Neanche il tempo di empatizzare con Woz che arriva la risposta lapidaria: “Io suono l’orchestra” risponde Jobs/Fassbender, che chiude: “Tu sei solo un buon musicista”.
Il dialogo scritto da Aaron Sorkin descrive il cambiamento che, negli ultimi 30 anni, ha investito il mondo della creatività e del design. Se un tempo era fondamentale saper fare le cose in prima persona, con le proprie mani, oggi è diventato più importante saper immaginare un progetto e coordinare lo sforzo di chi lo produrrà materialmente. Si tratta di un mutamento del concetto di originalità e di proprietà intellettuale, che spiana la strada a ciò che accadrà con l’ingresso dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite.
L’era dei direttori d’orchestra
Pensiamo cosa è successo all’industria americana e alla Apple in particolare. Da anni gli iPhone vengono progettati e marketizzati in USA ma sono prodotti fisicamente nella cittadella industriale della Foxconn in Cina. La gran parte delle marche di abbigliamento fanno la stessa cosa: concepiscono e posizionano sul mercato le collezioni dai loro quartier generali occidentali, affidando la produzione alla forza lavoro in altri territori: India, Turchia o la solita Cina.
Non è sempre stato così: la produzione di merce, soprattutto di lusso, ha storicamente tenuto assieme il lavoro dell’artigiano con quello del branding che ne aumenta il valore. Separando la realizzazione materiale dal resto del processo produttivo, come accade oggi, ciò che resta nelle mani di un marchio è la capacità di introdurre un bene sul mercato nella maniera corretta. La presentazione di un oggetto diventa il prodotto stesso che acquistiamo.
Quando pensiamo a Steve Jobs le prime cose che ci vengono in mente sono i suoi memorabili lanci dei gadget Apple. È stato lui a dimostrare una volta per tutte che lo spettacolo che circonda un prodotto è più importante della sua realizzazione fisica. Altre industrie, come la moda o la musica, hanno imparato la lezione. Dagli scenari di guerra in cui si muovono le modelle di Balenciaga per la presentazione della nuova collezione, alla nomina di un performer come Pharrell Williams a creative director di Louis Vuitton, fino a Kanye West che affitta un intero stadio per il lancio di un disco, la presentazione al pubblico di un prodotto è il momento centrale della sua esistenza.
Se la costruzione fisica di un oggetto richiede una competenza specifica, per organizzare uno spettacolo serve saper coordinare una serie di professionalità diverse. Queste acquistano valore quando sono capaci di suonare in accordo tra loro, trovando un obiettivo comune, come una schiera di musicisti davanti a un bravo direttore d’orchestra.
Istruzioni per l’uso
L’arte, quella che osserviamo nei musei, ha fatto questo scarto da tempo. Nessuno si chiede chi costruisce le opere di Maurizio Cattelan o di Jeff Koons. Non è solo questione di furbizia o di avere un’infarinatura di marketing: dirigere il lavoro altrui e produrre valore dimostra una conoscenza del sistema informativo e mediatico, oltre che la visione d’insieme necessaria a creare un risultato più grande della somma delle singole parti.
Negli anni ‘60 un artista come Sol LeWitt immaginava già una serie di tutorial rivolti al pubblico e ad altri artisti che, a partire dalle sue indicazioni, sarebbero stati in grado di costruire autonomamente variazioni delle sue opere. Per descrivere le istruzioni di Sol LeWitt qualcuno già allora usava la parola “prompt”, che in italiano potremmo tradurre come “spunto”, “suggerimento” o “messaggio” senza però riuscire a catturarne in pieno la profondità semantica e il suono tipico del lessico informatico.
Prompt è un termine tornato di moda con la nascita delle interfacce di intelligenza artificiale come Dall-E e ChatGPT. Con questa parola si definiscono le indicazioni testuali che inseriamo negli appositi box su Midjoruney o Bard di Google per cercare di evocare il risultato desiderato, a metà tra un manuale d’istruzioni Ikea e un incantesimo magico.
Sta a noi il compito di avere l’idea di partenza, trovare i riferimenti corretti ed essere in grado di capire quale, tra i servizi a nostra disposizione, sarà in grado di eseguire le istruzioni nella maniera migliore. Qualcun altro, ovvero l’intelligenza artificiale, si occuperà di produrre il contenuto che avevamo in mente.
Quello che succede alla musica succede a tutti gli altri
Sol LeWitt paragonava il proprio lavoro a quello di un musicista: le sue istruzioni erano uno spartito che altri avrebbero dovuto eseguire o reinterpretare. Nella musica di oggi il già citato Kanye West, o il suo figlioccio Travis Scott, si comportano come direttori d’orchestra tecnologici. Il loro lavoro non è quello di suonare uno strumento (a volte neppure quello di cantare) quanto di trovare un concept di partenza che incuriosisca il pubblico, convocare i collaboratori giusti, selezionare le idee più meritevoli e, soprattutto, prestare la propria identità al progetto. Se l’industria musicale è il luogo dove la capacità di fare questo genere di curatela ha la sua espressione più efficace, è anche il posto in cui il passaggio ad una prossima fase generativa si manifesterà con più velocità.
La rete sta attraversando un veloce mutamento: da luogo in cui dominava la capacità di saper selezionare (le playlist di Spotify, i feed degli influencer di Instagram e ancor prima su Tumblr) a quello in cui siamo attualmente immersi in cui è la raccomandazione a farla da padrone e dove l’algoritmo di TikTok è il riferimento di ogni piattaforma esistente. All’orizzonte si vede una prossima fase, che qualcuno definisce generativa, in cui l’industria discografica sembra pronta ad entrare con entusiasmo.
Universal Music discute già con Google un accordo su come dare in licenza le voci e le melodie del proprio repertorio artistico per la creazione di canzoni attraverso un sistema di intelligenza artificiale. Si immagina uno strumento in cui ciascuno sarà in grado di comporre una nuovo brano del proprio artista preferito, utilizzandone la voce e l’intonazione, e permettendo a questo di essere remunerato per aver prestato la sua identità artistica, pur senza aver fatto nulla dal punto di vista produttivo.
Un ascoltatore passivo diventa un produttore musicale con, a disposizione, i più grandi talenti musicali del mondo. In questo scenario la quantità di musica in circolazione è destinata ad aumentare in modo incalcolabile. Alla stessa maniera aumenteranno i guadagni degli artisti e delle case discografiche che parteciperanno a questo nuovo genere di business. L’attuale epoca dello streaming, che ha risollevato l’industria musicale dopo il crollo seguito all’arrivo del file sharing, potrebbe essere stata solo una breve parentesi tra un periodo di enormi guadagni ed un altro.
Ai tempi di Napster le case discografiche si sono rese conto che non stavano davvero vendendo musica, ma piuttosto il supporto fisico che la distribuiva. Una volta separate le due cose attraverso la digitalizzazione il loro business è stato distrutto. A differenza dei boicottaggi tecnologici del passato l’industria musicale ha imparato la lezione e sembra voler assecondare il futuro generativo cercando le giuste modalità di remunerazione.
Per questo motivo bisogna chiedersi dove sia il valore commerciale di un artista quando, dopo essere accessibile a tutti (Spotify docet), diventa anche infinitamente replicabile attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale. Come accaduto in passato la musica sarà il terreno su cui testare le innovazioni tecnologiche e distributive a nostra disposizione, e l’occasione di cercare un nuovo assetto economico.
Più vero del vero
Una canzone di Travis Scott è preziosa per il fatto di essere una canzone di Travis Scott, fosse firmata da un collaboratore o ghost writer non avrebbe la stessa capacità di attrazione nei confronti del pubblico. Se incollo una banana al muro non avrò la stessa copertura mediatica di quando a farlo è Maurizio Cattelan. Quando basterà digitare un prompt per creare un singolo di successo e la musica nelle piattaforme streaming sarà ancora più infinita di oggi, la personalità e il nome di un artista saranno fondamentali per convincerci ad ascoltare un brano piuttosto che un altro. In un contesto di scelta infinita l’attenzione del pubblico rimane una risorsa limitata.
Già oggi accade qualcosa di simile con la musica di Taylor Swift che, dopo aver perso la proprietà di questa parte del repertorio, ha deciso di ri-registrare i suoi primi dischi rinominandoli semplicemente “Taylor’s version”. Anche se entrambe le versioni, quella originale e quella più recente, sono disponibili nelle piattaforme streaming, i fan di Taylor, così come chi deve acquistare un suo brano per sonorizzare uno spot o un film, preferiscono le nuove edizioni delle canzoni per il semplice fatto di essere fortemente volute e pienamente riconosciute dall’artista.
L’identità e il nome legato ad un brano, il modo in cui arriva sul mercato e nei canali di distribuzione, diventano più importanti della canzone stessa, fino al paradosso per cui una cover, seppur eseguita dalla stessa persona, diventa più originale della canzone su cui è basata. Quando un prodotto è abbondante e il suo costo scende verso lo zero, diventa essenziale costruire un'aura di scarsità e autenticità che lo renda di nuovo prezioso.
Sabbia e petrolio
La diffusione dell’intelligenza artificiale e il passaggio a un sistema generativo ci lasciano con più domande che risposte. Qual è il modo corretto di remunerare i diversi soggetti che collaborano alla creazione di un prodotto commerciale o artistico? Sarà finalmente l’occasione di utilizzare la tecnologia blockchain per risolvere il problema? Come cambia il diritto d’autore quando l'input originale è indistinguibile dai contributi successivi?
Qualche anno fa andava di moda dire che “i dati sono il nuovo petrolio”, lasciando intendere che le informazioni sono la moneta della modernità. Oggi si dice invece che “i dati sono granelli di sabbia”, correggendo il tiro e prendendo atto che le informazioni hanno valore solo quando sono accumulate in grandissima quantità, così come accade per le anagrafiche delle piattaforme social o con i database che istruiscono i sistemi di intelligenza artificiale.
Scrittori e artisti fanno causa a ChatGPT accusandolo di aver incorporato il frutto del loro lavoro senza chiedere il permesso. Ma a differenza del file sharing di un tempo, dove i file illegali erano identificabili uno per uno, a questo giro le informazioni sono mescolate insieme in un unico calderone, in cui il singolo contributo si perde e la sola cosa che conta è la somma delle parti.
Trasformarsi da semplici musicisti a direttori d’orchestra significa immaginare un futuro in cui qualunque forma creativa si trasformi in un processo collaborativo tra una moltitudine di figure diverse, abbandonando l’idea romantica del genio solitario colpito da un'illuminazione, immaginando una mente condivisa dove il pronome “io” perde, un po’ per volta, ogni significato.
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Lungo e approfondito profilo di Wired US su OpenAI, l’azienda dietro ChatGPT. Questi sono davvero convinti di costruire Skynet.
I giovani non leggono gli articoli, tanto vale scrivere dei titoli ad effetto nei social.
I creator digitali sono gli eredi dei performance artist. Una bella intuizione di Ivan Carozzi.
L’ho scritto in questa newsletter: la prima industria a scontrarsi con l’intelligenza artificiale sarà la musica. Subito dopo toccherà al porno.
Come è nata una delle canzoni pop più importanti di sempre.
Giorgio Soffiato scrive di 100 cose di marketing che ha imparato lavorando.
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Un ascolto che consiglio - ma bisogna sforzarsi perché parla di un soggetto di cui credo manco sua mamma ne può più (Elon Musk) - è quello dell’intervista di Lex Fridman a Walter Isaacson, che ha appena scritto una biografia di EM.
Fra le altre cose e sulla traccia di quanto scrivi su esecutori e direttori, lui dice grossomodo “Elon è uno che fa le cose, io sono un osservatore, cioè sono uno che guarda e racconta quello che fanno quelli che fanno le cose.”
Ne parla in tono piano, senza prenderne le distanze né difenderlo ma in quel passaggio menziona una parte dell’umanità - gli osservatori, appunto - che sembrano passivi ma che invece servono a dare un ordine al caos generato da altri. E credo anche che gli altri, quelli che fanno, dovrebbe ascoltare e leggere chi li osserva perché sono degli specchi delle loro vite, e più son bravi, meno distorcono.