Più di quindici anni fa mi sono trasferito a Milano per lavorare a Qoob (qualcuno lo conosceva come YOS o Flux), un nuovo canale televisivo di MTV Italia che provava a sfruttare le novità tecnologiche che emergevano in quel periodo.
Myspace e YouTube erano nati da poco, il Web 2.0 era in piena ascesa e in poco tempo Facebook sarebbe diventato la forza egemonica di una generazione.
La rete entrava nella sua seconda fase, quella dei social network e dei contenuti prodotti dagli utenti. Qoob era il tentativo di usare video, foto e musica creati in questa maniera per costruire un palinsesto televisivo “dal basso”.
Da una parte c’era la sensazione che la scelta fosse ormai in mano al pubblico, dall’altra si stava avverando il sogno di qualunque editore: un canale televisivo quasi a costo zero, basato sui contenuti forniti dagli utenti.
Questa storia non ha un lieto fine: Qoob non trova un modello economico e ci accorgiamo che i contenuti user generated sono quasi sempre pessimi. Nonostante le centinaia di clip e canzoni caricate ogni giorno nel nostro sito solo una piccola percentuale di queste è di qualità sufficiente per essere trasmessa in tv.
Avanti veloce al 2023, con l’entrata in scena di TikTok e del suo algoritmo, il tentativo fallito quasi due decenni fa, oggi sembra funzionare. La piattaforma d’intrattenimento cinese è quanto di più simile ad una televisione composta esclusivamente dai contenuti prodotti dai suoi iscritti.
Siamo tutti creator
Da un po’ di tempo sembra che per continuare a esercitare una professione nel mondo della comunicazione siamo tutti invitati a trasformarci in creator.
Dai musicisti costretti dalle case discografiche a creare contenuti per TikTok, ai giornalisti obbligati a comunicare le notizie nello spazio di un Reel, passando per i politici che sfruttano i loro talenti nascosti per cercare consenso (a questo proposito vale la pena rivedere un fantastico Dario Nardella violinista).
Mi piace definire questo processo come la “creatorizzazione” di internet. Un neologismo cacofonico per spiegare come la nostra cittadinanza digitale è sempre più legata alla capacità di produrre contenuti complessi e creare una community.
Secondo un report di Goldman Sachs la creator economy globale raddoppierà il suo valore entro il 2027, passando dagli attuali 250 miliardi di dollari a 480. Sono i creator ad avere in mano le chiavi della comunicazione online, sono i loro contenuti quelli che consumiamo più volentieri e che le piattaforme di intrattenimento distribuiscono con più convinzione. A noi non rimane che entrare nei loro ranghi o rimanere a guardare.
Marc Andreessen, inventore del browser Netscape e a capo di a16z, uno dei più grandi fondi di Venture Capital del mondo, pensa che saranno i creator a lanciare i brand più rilevanti del futuro. “Nell’era dei mass media le aziende costruivano il proprio marchio principalmente attraverso la pubblicità televisiva, c’erano i testimonial ma non erano al centro del progetto”.
Secondo Adreesen questo portava ad una “configurazione errata” per cui le persone sono costrette ad affezionarsi ad un marchio quando è più naturale farlo con una persona.
È quello che accade oggi con i prodotti creati e lanciati da creator superstar come Kim Kardashian (l’intimo Skims) o MrBeast (le barrette di cioccolato Feastebles) o, in Italia, il caso dell’Estetista Cinica.
Per la sofisticazione dei contenuti che siamo costretti a produrre, oltre che per le meccaniche messe in campo dalle piattaforme, essere presenti in un social network somiglia sempre di più ad un lavoro a tempo pieno.
Da poco è arrivato in Italia Meta Verified, un livello a pagamento di Facebook e Instagram che dà accesso ad una serie di funzioni aggiuntive e garantisce un’assistenza dedicata in caso di problemi tecnici e furti di identità.
Nonostante in tanti abbiano liquidato l’iniziativa come superflua, ci sono sempre più persone per cui perdere la password del proprio account significa restare disoccupati. Per loro, una piccola assicurazione mensile, è un prezzo ragionevole da pagare.
Il nuovo X di Elon Musk spinge nella stessa direzione: monetizzare la propria base di utenti, sapendo che chi usa professionalmente la piattaforma sarà portato a pagare un abbonamento mensile, tenendo conto che questo permette anche di dare maggiore visibilità ai propri contenuti.
Nonostante il comprensibile odio di molti verso Musk, gli va riconosciuta la lucidità di capire che, nel momento in cui la tecnologia diventa intercambiabile e ogni piattaforma è uguale alle altre (tutte basate su contenuti video, tutte con stories e contenuti effimeri etc etc), a fare la differenza sono i contenuti e i creator che li producono.
Da qui deriva il suo tentativo di monetizzare e retribuire i più attivi, corteggiando quelli già rilevanti altrove: dallo Youtuber MrBeast fino al mezzobusto USA Tucker Carlson, esiliato dal canale televisivo Fox News.
Gli fa eco il nuovo CEO di YouTube Neil Mohan che ammette: “YouTube non è un social network, piuttosto un luogo dove connettersi con i creator”.
Proprio YouTube è la piattaforma che per prima e con più convinzione ha iniziato a pagare i suoi creator più attivi, dividendo con questi una percentuale della pubblicità venduta su i loro video.
La dura vita del Creator
Sento già alzarsi le prime obiezioni: i creator sono dei bluff, mio cugino con venti euro lo faceva meglio e l’inevitabile citazione di Umberto Eco per cui “internet ha dato diritto di parola agli imbecilli”.
Volendo aggiornare il virgolettato di Eco potremmo dire che se la rete ha dato una voce a tutti, alla stessa maniera gliel’ha anche tolta.
Nel momento in cui le piattaforme si trasformano da social network che mettono in contatto le persone, a luoghi di distribuzione di contenuti, si separa chi questi li produce (i creator) da chi li consuma e basta (gli utenti).
L’altro grande malinteso da sfatare è quello che questi luoghi, TikTok in primis, sono il regno di chi non ha nulla da dire. Di recente ho letto un’intervista illuminante che contiene tutti gli stereotipi errati che animano questo genere di discussioni.
Secondo Riccardo Pirrone, pubblicitario della società KirWeb e Social Media Manager della celebre azienda di pompe funebri Taffo, “Possiamo dire che TikTok è il regno di chi non ha talento. E tutti possono usarlo. Mentre su Instagram i video sono spesso di alta qualità con un buon montaggio; si mostrano spesso le bellezze e i talenti: ci sono persone che recitano bene, cantano bene; su TikTok è diverso”.
L’errore di Pirrone è di scambiare il linguaggio della piattaforma con la qualità del contenuto. TikTok è il luogo dove il talento si mostra nella sua forma più pura proprio perché, per la sua tipologia di comunicazione, la barriera d’ingresso è la più bassa possibile.
TikTok evita fronzoli produttivi e incoraggia la spontaneità e la disintermediazione. A differenza di Instagram non servono video patinati fatti da amici montatori, e non è indispensabile una presenza fisica avvenente su cui incentrare la comunicazione.
Ma soprattutto, per avere successo in questo nuovo genere di piattaforme, non è necessario aver già guadagnato una notorietà in altri ambiti (politica, televisione etc) perché conta solo il contenuto che si produce.
Con ogni post si ricomincia da capo, basandosi ogni volta sulla propria inventiva. Il tempo speso dagli utenti è la sola unità di misura, l’algoritmo è il giudice imparziale.
Continua Perrone, sempre in riferimento a TikTok: “Anche se non sai ballare, il social mette a disposizione dei tool per velocizzare i video ed è così che diventi esperto di ballo; o ancora, c’è possibilità di fare i doppiaggi, e diventi attore/attrice pure senza esserlo. E poi è pieno di filtri. TikTok offre una serie di possibilità anche a chi non ha talento e non sa fare nulla, che altri social non danno”.
Anche in questo caso la verità è all’opposto: la presenza di questi strumenti, che concedono una capacità espressiva mai raggiunta in passato, costringe i creator a confrontarsi e padroneggiare gli elementi a disposizione, e il valore aggiunto è capire come utilizzarli nella maniera migliore, più originale o differente.
Il passaggio generazionale tra tra gli influencer di un tempo e i creator di oggi è tutto qui: non basta più apparire ma è necessario performare, possedere una propria voce.
La democrazia dell’algoritmo
L’algoritmo è un mezzo di grande democratizzazione espressiva. A pensarla così è Kevin Systrom, fondatore di Instagram e ora alle prese con la sua nuova creatura Artifact, una specie di TikTok della parola scritta. “Una delle cose più belle di TikTok è che chiunque può diventare famoso. Si tratta del metodo di distribuzione in assoluto più democratico perché si basa esclusivamente sulla qualità del contenuto e non sul fatto che quella persona abbia già costruito in qualche modo un suo seguito”.
Questo ritorno del contenuto al centro della scena è alla base della separazione tra chi è in grado di produrne con la qualità richiesta e chi si limita a guardare.
Continua Systrom: “L’80% di noi passerà il proprio tempo solo sul 20% del totale dei contenuti disponibili. Questo è vero anche per Instagram e Facebook, facendo un discorso generale direi che la coda lunga dei social network è definitivamente morta”.
Le percentuali 20/80 di cui parla Systrom sono quelle tipiche della distribuzione secondo curva di potenza su cui è fondato il consumo dei contenuti online.
Clay Shirky spiega il fenomeno così: “In un sistema in cui molte persone sono libere di scegliere tra diverse opzioni, una piccola parte di queste attrarrà un quantitativo di traffico (o di attenzione o di denaro) sproporzionato rispetto alle altre. Questo anche se nessun membro del sistema ha fatto nulla perché ciò accadesse”.
Le piattaforme più rilevanti per le nuove generazioni, YouTube, TikTok o Twitch, assecondano questo meccanismo, e funzionano come stazioni di trasmissione dove un singolo creator invia un contenuto a milioni di seguaci.
Quello che gli utenti hanno da dirsi tra loro è poco importante, le chiacchiere stanno a zero, quel che conta è ascoltare o guardare quello che comunicano i pochi nella testa della curva di distribuzione.
Si rivela definitivamente sbagliata la convinzione iniziale di Mark Zuckerberg per cui i social network servono a connettere tra loro tutte le persone e replicare, in formato digitale, le reti sociali del mondo fisico.
La verità è che online cerchiamo soggetti con talenti particolari, in grado di intrattenerci o insegnarci qualcosa, storie fuori dall’ordinario e approfondimenti sullo star system. A nessuno interessa più vedere le foto delle vostre vacanze.
Creator Based Platform
Adam Mosseri, a capo di Instagram e ora anche del nuovo Threads, ha ben chiaro che sono i creator, soprattutto i più bravi, gli unici in grado di far decollare una piattaforma. “Penso che il successo sarà creare una community vibrante, soprattutto di creator. Questo perché penso che questo tipo di spazio pubblico, anche più di altri social network, sia un luogo dove un piccolo numero di persone produrrà la maggior parte del contenuto che tutti gli altri consumano”.
Threads è forse la prima piattaforma nata con già in mente l’idea di essere creator-based, e mettere al centro del proprio ecosistema questa figura, tanto che, sempre secondo le sue parole, permetterà ai creator di portare altrove la propria base di utenti. “Prima o poi dovrebbe essere possibile per i creator lasciare Threads e portare con loro i proprio seguaci in un’altra app. Credo che sia importante per loro riuscire a essere padroni del rapporto con la propria audience”.
I creator hanno un’importanza tale da potersi sedere al tavolo delle piattaforme ricevendo concessioni e servizi un tempo impensabili.
Mutatis mutandis
Dai tempi di Qoob sono passati quasi vent’anni e il mondo si è capovolto almeno un paio di volte.
La televisione di oggi non è più solo quella lineare che facevamo ai tempi di MTV, ma anche quella algoritmica di TikTok e YouTube che ci suggeriscono cosa guardare, adattandosi ai nostri gusti in tempo reale, e trovando una mediazione tra la scelta infinita dell’on demand e la curatela dei canali con un palinsesto rigido.
Dall’altra parte gli utenti di oggi sono infinitamente più capaci ed abili di quelli di un tempo, sia perché più avvezzi ad una comunicazione veloce, sia perché in possesso di strumenti più potenti e versatili, a cominciare dagli smartphone.
Ma, anche se il numero di user generated content è aumentato enormemente, oggi come allora, solo una piccola parte di questi saranno rilevanti per le piattaforme di distribuzione.
Il resto degli utenti, che non hanno il talento, la voglia o la possibilità di mettersi in gioco, è destinato a diventare sempre più passivo, proprio come gli spettatori della piattaforme streaming o della televisione lineare di un tempo.
Come creare contenuti che funzionano?
Come si struttura una strategia editoriale? Su quali piattaforme conviene distribuire un contenuto? Come produrre un video che le persone vogliono condividere?
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hai fatto chiudere Artifact!
Proprio ieri fa ho pubblicato una newsletter sottolineando l'importanza e la rilevanza della creator economy paragonata alla vecchia comunicazione. È stato il frutto di una polemica che mi ha visto difendere l'intera categoria - nel bene e nel male - dai conservatori del giornalismo tradizionale che la derubricano tutta a mera spazzatura. Leggere questo numero di Scrolling Infinito che affronta lo stesso tema con occhio analitico mi fa bene al cuore.