La guerra dell’attenzione è finita, ecco chi ha vinto
Creator economy: il 2025 è l'anno dell'incasso
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La fine della guerra dell'attenzione
La storia l’abbiamo sentita tutti, anche chi ascolta solo musica lirica. Il Comune di Roma organizza un concerto per Capodanno al Circo Massimo, invitando alcuni artisti tra cui il rapper Tony Effe.
Poco dopo il Comune ci ripensa e decide di ritirare l’invito al musicista, colpevole di essere autore di testi troppo controversi. Gli altri artisti che avrebbero dovuto suonare con lui alla serata, Mahmood e Mara Sattei, rinunciano ad esibirsi in segno di solidarietà con il collega.
Il concerto viene annullato e Tony Effe ne organizza un altro, tutto da solo, sempre per la sera di Capodanno, ma questa volta al Palazzetto dello Sport di Roma. Il concerto fa subito il tutto esaurito e si rivela un successo.
Il Comune di Roma pensava di avere il coltello dalla parte del manico perché, fino a ieri, chi aveva i soldi controllava l’attenzione delle persone: produceva show, comprava pubblicità, decideva cosa andava visto e sentito.
Oggi però accade il contrario. L’attenzione è scarsa ed è diventata più importante dei soldi. Chi sa catturarla non ha problemi a monetizzarla e Tony Effe lo ha dimostrato organizzando facilmente un concerto sold out, per lui ancora più remunerativo.
I soldi non sono più il punto di partenza, ma una conseguenza. A dirigere l’orchestra non è più chi ha il budget, ma chi sa catturare l’attenzione del pubblico: performer, artisti e soprattutto creator.
Il 2024 è finito dimostrando come, anche in Italia, la comunicazione e l’intrattenimento seguono nuove regole.
Il nuovo mondo dei creator
Quella di Trump è stata descritta come la Podcast Election, per via dell’importanza che le sue ospitate nei principali show di creator su YouTube e Spotify, primo fra tutti quello di Joe Rogan, hanno avuto nell’influenzare l’opinione pubblica.
Non solo: una delle dirette più seguite al mondo è stata l’incontro di box su Netflix tra Mike Tyson e un creator, Jake Paul. Uno degli show più visti è quello dello youtuber MrBeast su Amazon Prime Video e persino Cristiano Ronaldo si è allontanato dal campo da calcio per aprire il suo canale YouTube.
In Italia succede qualcosa di simile: Selvaggia Lucarelli lancia la sua newsletter a pagamento su Substack (con più di 80k iscritti di cui molti a pagamento) che diventa addirittura materia di discussione in prima serata su Rai 1. Fabrizio Corona ci prova con YouTube, realizzando il suo sogno di fare il presentatore.
Geopop, uno dei più grandi progetti di divulgazione video italiani, invece di un prevedibile salto televisivo ha deciso di lanciare una membership tra i suoi utenti e produrre autonomamente una prima serata su YouTube.
Nel momento in cui scrivo, Cecilia Sala (un’amica per cui sono tremendamente preoccupato) è ancora ostaggio del regime iraniano e l’Italia è col fiato sospeso per una delle sue giornaliste più note, divenuta celebre per la sua attività social e soprattutto per un podcast pubblicato da un media indipendente.
In questa serie di esempi non sto parlando di piccole realtà che cercano online il loro posto al sole. Quelli che ho citato sono alcuni dei nomi più famosi dell’intrattenimento e dell’informazione mainstream nazionale che hanno deciso di iniziare a creare contenuti e a costruire una community in prima persona, senza l’intermediazione di editori o distributori.
Non è una scelta politica, ma economica. Secondo le stime dell’analista Doug Shapiro, che ha analizzato i report di società come PwC, eMarketer, Fasto Company e molte altre, la creator economy ha generato a livello globale più di 250 miliardi di dollari di guadagni nel 2023, e punta a raggiungere i 600 miliardi entro il 2030. Per avere un termine di paragone l’intera industria dei videogiochi ha un valore previsto per il 2023 di poco più di 200 miliardi di dollari.
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Più le cifre si fanno grandi e più il confine tra creator economy e economia tout court diventa sottile. Il modo per fare soldi è sempre stato lo stesso: catturare l’attenzione delle persone e monetizzarla convincendole a comprare beni o servizi. Ad essere cambiata è la disintermediazione di questo processo.
Il rapporto tra chi è capace di creare attenzione e la sua audience oggi è diretto e gli editori e gli aggregatori di un tempo sono entrati in crisi. Come ci ha insegnato la storia del Capodanno di Tony Effe.
Nel prossimo decennio sempre più personaggi di primo piano potrebbero scegliere di entrare in contatto diretto col proprio pubblico per la distribuzione e monetizzazione dei propri contenuti. Più la pressione economica sui media tradizionali aumenta e più la frizione tra gli individui e le aziende diventa forte, spingendo molti ad un percorso indipendente.
Il trucco delle piattaforme
Molti si stanno rendendo conto del cambiamento per cui i creator sono al centro della scena e molti stanno cercando di capire come incanalare la loro autorevolezza per guadagnarci su.
Ci provano le piattaforme d’intrattenimento come YouTube e Spotify che, proprio nelle ultime settimane, ha lanciato il suo programma di partnership rivolto ai creator per convincerli a caricare video podcast anche su quello che fino a poco fa era un servizio di streaming musicale.
La promessa di Spotify è quella di dividere parte dei guadagni, provenienti dai più di 250 milioni di abbonati a pagamento, tra i creator che saranno in grado di far passare più tempo agli utenti guardando video nella piattaforma. Una logica di revenue sharing simile a quella di YouTube, ma fondata sulla fidelizzazione degli spettatori più che su un modello pubblicitario quantitativo.
Spotify e YouTube vogliono essere aggregatori di creator e diventare la destinazione principale di chi vuole passare del tempo con i loro contenuti. Cercano insomma di proporsi come nuovi intermediari, sostituendo quelli tradizionali (produttori, editori e distributori), ormai progressivamente rottamati.
Per riuscire nell’impresa le piattaforme utilizzano nuovi algoritmi basati sull’interesse degli utenti. Il tasto follow di ciascun profilo diventa sempre meno importante e si accede a TikTok, o a YouTube, senza sapere bene cosa ci verrà proposto, un po’ come succedeva un tempo con lo zapping in televisione.
Dall’attenzione all’intenzione
Per molti creator però la slot machine degli algoritmi ha più svantaggi che vantaggi e molti si guardano attorno per uscire dalla ruota del criceto della pubblicazione di contenuti, spostando l’attenzione dalla quantità di contatti alla loro profondità.
Per rispondere ai nuovi bisogni di indipendenza dei creator, stanno emergendo una serie di piattaforme che mettono l’accento sulla creazione di community più che sul tempo speso consumando contenuti.
Discord nasce come servizio di chat per community di gamer, ma da diversi anni è la prima scelta per creator di ogni genere che vogliono trovare un luogo digitale dove interagire con i propri fan.
Allo stesso modo Kajabi, da sempre con un focus sugli strumenti per creare corsi online, si è appena riposizionato per fornire ai creator tutti gli strumenti per monetizzare la propria community. Non solo corsi, ma anche email marketing, podcast, servizi di coaching e altro ancora.
La stessa Substack, da cui arriva questa newsletter, si propone come alternativa alle vecchie piattaforme social dando la possibilità di possedere il terreno su cui si costruisce la propria community perché in qualunque momento si possono scaricare gli indirizzi degli iscritti e decidere di spostarsi altrove.
Con un articolo un po’ retorico uno dei fondatori di Substack, Hamish McKenzie, descrive il capovolgimento in atto e le intenzioni della piattaforma di cui è a capo: “Stiamo passando dall'era in cui le piattaforme possedevano le persone a un'era in cui le persone possiedono le piattaforme, un'era in cui i creator rivendicano giustamente maggiore proprietà e controllo sulle loro relazioni con le comunità. È l'età del creator sovrano. C'è un enorme potenziale nello sviluppare strumenti che favoriscano questo senso di appartenenza, accelerando e amplificando il successo dei creator”.
La buzzword usata per descrivere queste nuove piattaforma è Creator Company: imprese costruite attorno a questa nuova figura e con un forte focus sulle possibilità di monetizzazione dei contenuti. Luoghi dove gli utenti possono interagire tra di loro, piuttosto che semplici superfici d’intrattenimento, trasformando così l’audience in vere e proprie community di utenti con interessi condivisi.
La resa dei conti
Non vi preoccupate: Instagram e TikTok non spariranno domani. Editori, aziende e creator continueranno ad avere bisogno di luoghi dove far scoprire i propri contenuti a più persone possibili e in questo l’algoritmo delle piattaforme rimane efficacissimo.
Creare contenuti però è un lavoro che alla lunga può rivelarsi usurante. Da una parte c’è la pressione per produrre contenuti destinati a una community che ne ha continuamente bisogno, ne abbiamo parlato anche nella Creator Masterclass di Giulia Torelli.
Dall’altra aumentano i casi di burnout anche tra i creator più famosi, ad esempio la youtuber Emma Chamberlain ha da tempo smesso di postare regolarmente su Instagram e TikTok concentrandosi esclusivamente sul suo podcast e le aziende da lei fondate.
La crescente pressione verso la redditività di qualunque attività digitale ha spostato però l’accento su come guadagnare da tutta questa attenzione accumulata. Sempre più persone si sono stancate di lavorare per l’algoritmo e vogliono possedere gli strumenti necessari per diventare padroni del rapporto con il proprio pubblico.
Il 2025 non sarà solo l’anno in cui i creator passeranno all’incasso, ma anche quello in cui il sistema dei media tradizionali dovrà affrontare una scelta cruciale: reinventarsi o rischiare di perdere gran parte della sua rilevanza.
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C'è da dire che tutti i pipponi di Hamish Mackenzie sono retorici, perché servono a tirare l'acqua al mulino di Substack e farsi passare come se stessero facendo una rivoluzione alla Steve Jobs. Però devo dire che non mi dispiacciono, sono piacevoli letture. 😄
Io però ho qualche dubbio. Seguo alcuni creators, alcuni li supporto su Substack, alcuni su Patreon, uno su Spotify. Ma c’è un limite sia al mio tempo che al mio budget per supportare i creators. Per supportarne uno nuovo devo mollarne uno vecchio. In definitiva si ritorna al modello “allora ti becchi le pubblicità” (che ha reso YouTube borderline inutilizzabile) oppure agli Hunger Games. Insomma anche questo nuovo paradigma non mi pare così sostenibile sul lungo periodo.