Abbiamo prodotto 10.000 video in 6 anni, ecco cosa ho imparato
Problemi risolti ed errori commessi lavorando per una piattaforma streaming
Come diceva lo scrittore irlandese Brendan Behan: “I critici sono come gli eunuchi di un harem: sanno come si fa, lo vedono fare tutti i giorni, però non sono capaci di farlo”. Chi si occupa di commentare i temi del digitale (giornalisti e soprattutto noi autori di newsletter) rischia di essere come l’eunuco di cui sopra: ha la verità in mano, ma senza la possibilità di metterla in pratica.
Questa è una newsletter diversa dal solito: non parlerà solo di ipotesi e scenari ma soprattutto degli errori e delle soluzioni costruite con i miei colleghi nel lavoro quotidiano e lo farà utilizzando esempi pratici di contenuti prodotti e pubblicati online.
Da 6 anni faccio parte del team per lo sviluppo dei contenuti digitali di Mediaset con l’obiettivo di promuovere i brand televisivi online. Durante le nostre riunioni ci facciamo domande come: Che differenza c’è tra un contenuto tv e un video digital? E tra una celebrity e un creator? Esiste un modo per far funzionare un format su qualunque piattaforma? Trovare le risposte non è semplice e si procede per tentativi.
Si dice che il modo migliore di capire qualcosa è provare a spiegarlo agli altri. Per questo anni fa avevo scritto un articolo simile da cui era partita l’idea di Scrolling Infinito. Ora può essere utile condividere una nuova serie di riflessioni (teoriche) e soluzioni (pratiche) pensate per chi costruisce contenuti online, in un contesto complesso e con un ritmo sempre più rapido.
Spero che possa essere utile anche per qualcuno di voi, sicuramente è servito a me.
Indice
Le piattaforme sono community
La differenza tra fare video e fare televisione
Mediasetverse
Perché fanno tutti reaction video?
I prossimi 10.000 video
Le piattaforme sono community
In teoria
Ogni piattaforma è una nazione indipendente. Ma cos'è una piattaforma? Una delle definizioni più intelligenti è quella di Tim Sweeney, fondatore della software house Epic Games che dice: “Qualcosa diventa una piattaforma quando la maggior parte del contenuto consumato dalle persone che la utilizzano è creato da altri”, dove per altri si intendono utenti o entità differenti dall’ecosistema tecnologico che li ospita. Ne sono esempi perfetti i principali social network: Instagram, Facebook, TikTok, Twitter, Snapchat, Pinterest, YouTube.
Possiamo allargare un po’ questa definizione: si possono definire piattaforme anche quei siti di streaming così grandi da avere un proprio sistema di contenuti, star e riferimenti culturali. Non solo i social network ma anche Netflix è una piattaforma, così come Amazon Prime o RaiPlay e la stessa Mediaset Infinity.
Rimane una forte distinzione tra piattaforme basate su contenuti prodotti dagli utenti e quelle editoriali, ma è un confine che continua ad assottigliarsi, infatti i social network sono spesso accusati di essere editori sotto mentite spoglie.
TikTok e YouTube sono piattaforme sempre meno social e sempre più di intrattenimento e finiscono per somigliare a canali di video streaming algoritmico. Spotify produce podcast e chiude accordi di esclusiva con talent come con Joe Rogan, il Twitter di Elon Musk arruola volti televisivi e lancia campagne presidenziali, tanto che in molti ne parlano come di una versione aggiornata del canale Fox News.
In che senso ogni piattaforma è una nazione indipendente? Come uno Stato sovrano ogni piattaforma ha una propria lingua e costumi diversi dagli altri. Ogni piattaforma ha anche un Governo e un Pantheon di celebrità ben preciso. L’errore più comune è provare a creare un contenuto che vada bene per tutte le piattaforme/nazioni, errore che ovviamente ho fatto.
Si legge spesso che tutte le piattaforme sono uguali: tutte hanno le stories come Instagram, un'interfaccia simile e un algoritmo che rincorre quello di TikTok. Eppure più l’aspetto tecnologico le rende indistinguibili e più le community che le abitano sono diverse.
Il fatto che gli account più seguiti su ciascuna di queste siano completamente differenti dalle altre dimostra come a fare la differenza sia l'audience a cui ci si rivolge, lo stile comunicativo e gli interessi di chi abita quella specifica piattaforma. Basta vedere la grafica qui di seguito per capire come Instagram sia dominato dalle celebrità, Youtube dai brand e TikTok dai creator.
Scegliere dei volti conosciuti ed amati in una determinata piattaforma è garanzia di scontentare chi vi segue su un’altra. Conduttori televisivi emergenti e di successo diventano perfetti sconosciuti una volta proposti su YouTube. Al contrario eminenti influencer digitali non lasciano nessun segno nello spettatore televisivo tradizionale. La stessa cosa succede con trasferte meno traumatiche per chi passa da YouTube a Instagram o da Facebook a TikTok.
La difficoltà di ibridare i linguaggi sta in questo paradosso: più la fruizione di contenuti avviene in un contesto di convergenza (nelle smart tv c’è di tutto: da TikTok a Youtube fino ai canali televisivi lineari) e più diventa difficile costruire ponti tra ambiti diversi.
Tornando alla metafora geografica, più l'Europa prova ad unirsi e più ciascun Paese rimane ancorato alle proprie tradizioni.
In pratica
Qualche anno fa abbiamo fatto un simulcast, trasmettendo uno dei format originali di Mediaset Infinity su più piattaforme contemporaneamente.
Adoro! condotto da Tommaso Zorzi e Giulia Salemi è stato un primo tentativo di incrociare il lessico di YouTube a quello televisivo. Da una parte una costruzione dello show complessa (con diversi momenti e giochi legati tra loro) tipica della tv e dall’altro una messa in scena e una produzione nello stile dei contenuti user generated. Il risultato è la dimostrazione di come mettendo troppe cose assieme si finisce per scontentare tutti.
Il format pensato per gli spettatori di Mediaset Infinity (al tempo Mediaset Play) faticava a diventare rilevante sulle piattaforme social in cui veniva reso disponibile in diretta così come sulla stessa Mediaset Infinity per cui era pensato.
Si trattava di un prodotto ibrido, diverso da quelli che circolano su Facebook o su YouTube di cui imitava il linguaggio, ma anche dai contenuti con un valore produttivo più alto come quelli televisivi che compongono la maggioranza dei video del sito Mediaset. A rendere le cose più difficili c’era anche il fatto che i conduttori e gli ospiti erano popolari solo su alcune delle piattaforme in cui era trasmesso e molto meno su altre.
Prima di decidere dove distribuire un contenuto, pensate al pubblico che popola una determinata piattaforma, ai loro interessi e alle discussioni che la attraversano. Rinunciate a essere ovunque nella stessa maniera e con la stessa intensità, rischiando di lasciare sguarnito il terreno da cui provenite e che per primo dovreste presidiare.
La differenza tra fare video e fare televisione
In teoria
Chi crea una serie per Netflix fa tv o per il fatto di essere distribuita esclusivamente online si tratta di qualcosa di diverso? E chi lavora con TikTok? Siamo sicuri che produrre un video in formato verticale non c’entra niente col lessico televisivo?
La domanda non è retorica, chiamare le cose col giusto nome è fondamentale per capire in che campo stiamo giocando. La risposta più convincente l’ha data l’analista tecnologico Benedict Evans. Secondo Evans per sapere se siamo di fronte a un’azienda televisiva (o di intrattenimento in genere) o ad una tecnologica bisogna capire che tipo di discussioni guidano il nostro lavoro.
Molti pensano a Netflix (o Amazon Prime Video, Apple TV etc) come a servizi tecnologici, ma è vero il contrario. Tutte le domande che influenzano le piattaforme editoriali di questo tipo sono “domande da Hollywood” dice Evans. Il conto economico di queste aziende dipende dal successo delle loro produzioni video, proprio come per qualunque televisione lineare o casa di produzione cinematografica. A fare la differenza sono le idee e i talenti che queste riescono ad attrarre, oltre che la capacità di marketizzarle nel modo corretto. Se Netflix trasmettesse solo repliche de L’albero azzurro nessuno pagherebbe per un abbonamento.
Il discorso che circonda piattaforme come YouTube e TikTok è diverso. In questo caso si fanno soprattutto “domande da Silicon Valley”, legate a temi tecnologici. Quando parliamo di TikTok ci interessa il suo algoritmo di raccomandazione. Per YouTube a fare la differenza è la capacità di remunerare la community di creator con un meccanismo di revenue sharing. Si tratta di argomenti legati più a processi tecnologici che a questioni editoriali.
Se lavorate per un’agenzia di comunicazione, un editore o un brand è più facile che la vostra posizione di partenza sia più vicina alle domande della prima tipologia, quelle “da Hollywood”. La brutta notizia è che per chi gioca in questa categoria è quasi impossibile vincere.
A dirlo non sono io ma il più autorevole CEO di Disney Bob Iger che, tornato in carica per aggiustare i conti dell’azienda, ha ammesso come produrre video per le piattaforme streaming tradizionali non è economicamente sostenibile: “Penso semplicemente che ci debba essere un legame tra quanto viene speso e quanto si guadagna, è una questione di responsabilità”.
I conti di Disney+ parlano chiaro, così come quelli di Amazon Prime Video e Apple TV, che possono sostenere le perdite perché basano il proprio business su settori più remunerativi (rispettivamente: essere un marketplace di beni, vendere iPhone) che quello dei contenuti. Fa eccezione Netflix, unica al momento tra le principali piattaforme streaming ad avere un segno positivo in bilancio.
La soluzione è provare a giocare quanto più possibile nella seconda categoria, quella delle “domande da Silicon Valley” che basano il successo del proprio business su tematiche tecnologiche.
Secondo molti l’unico modo di far tornare i conti in un servizio video online è creare un sistema capace di sfruttare la natura del prodotto per moltiplicare il valore dei contenuti proposti. Per questo bisogna capovolgere la partita usando le armi che la rete mette a disposizione e di cui i mezzi tradizionali (tv, cinema etc) non dispongono.
Alcune possibili soluzioni per nuovi prodotti online che vogliono provare ad essere sostenibili sono la possibilità di puntare sulla discoverability (algoritmi e suggerimenti sul modello di YouTube e TikTok) o l’effetto network e le forme di interazione a disposizione di chi può connettersi con la propria community di spettatori come accade ad esempio su Twitch.
In pratica
Su Mediaset Infinity abbiamo provato a giocare con questa ultima ipotesi creando una serie di show denominati Party (GF Vip Party prima del Grande Fratello Vip, Isola Party prima dell’Isola dei Famosi e così via) che riprendono diversi aspetti del linguaggio streaming e che anticipano la messa in onda delle più importanti produzioni di prima serata in tv.
In questo modo si fa leva su una community di spettatori già esistente, provando ad innescare un effetto network per cui “più siamo e più è divertente quello che stiamo vedendo”. A volte le due dimensioni, quella online e quella televisiva lineare, si incrociano in un cortocircuito in cui la prima svela il dietro le quinte della seconda, aggiungendo una dimensione al racconto.
Durante questa serie di produzioni c’è un dialogo continuo tra i conduttori, gli ospiti, chi segue la diretta da casa e i protagonisti dello show televisivo di prima serata. Non solo con la messa in onda di commenti social a cui si risponde in tempo reale, ma anche con l’innesco di dinamiche editoriali basate su quello che accade all’interno dello show e della community e dei fandom (“Se arriviamo primi in tendenza succede che…”).
Da qualche settimana stiamo facendo alcuni primissimi esperimenti con un nuovo livello di interattività. Chi segue lo streaming online può entrare in diretta in prima persona dal divano di casa col proprio cellulare. Si innesca un meccanismo simile a quello delle app di Live Gaming alla fine del quale alcuni utenti partecipano ad un casting con la redazione del programma che seleziona uno o più spettatori per farli entrare in video con i conduttori e gli ospiti dello show.
Per chi scrive e produce contenuti digitali il pericolo più grande è di cadere nella cosiddetta Content Trap, pensando che gli unici strumenti a nostra disposizione siano la bontà delle idee editoriali, dei talent e degli ospiti che riusciamo a trovare.
Le questioni che ruotano attorno a prodotti online dovrebbero essere soprattutto di tipo tecnologico, solo così si può provare a superare le difficoltà produttive di un sistema ancora troppo costoso e privo di un sicuro modello di business.
Mediasetverse
In teoria
Qualche tempo fa parlavo con Vincenzo Marino, scrittore e autore di una bella newsletter, e gli spiegavo come il mondo delle celebrità televisive crea una fitta rete di connessioni simile a quelle di un social network.
I protagonisti di un reality finiscono anche in altre trasmissioni della stessa rete o sono ospiti nello show che va in onda subito dopo quello di cui sono stati protagonisti. In prima serata gli ospiti più attesi sono i presentatori di altri programmi della stessa emittente, in un crossover simile a quello dei fumetti americani.
“Mediasetverse!” esclama Vincenzo, citando il Marvel Cinematic Universe, che è la planimetria di riferimento per chiunque voglia costruire un sistema di intrattenimento. Rai, Mediaset così come qualunque altra piattaforma editoriale hanno il proprio universo condiviso fatto di supereroi coraggiosi, temibili avversari, feudi e insospettabili alleanze. Lascio a voi il compito di capire chi è il corrispettivo televisivo italiano di Capitan America o del perfido Dottor Destino.
A parte gli scherzi l’intuizione di Vincenzo è stata utile per dare una forma più familiare e comprensibile al groviglio di linee narrative che percorre ogni piattaforma. Alla base della possibilità di successo di un prodotto editoriale c’è la capacità di identificare i protagonisti del vostro universo condiviso da utilizzare come ambasciatori, capendo quali sono le storie più forti e sfruttare le connessioni che si creano.
L’importanza di un personaggio all’interno di un perimetro editoriale non è necessariamente legata al numero dei suoi follower quanto alla sua notiziabilità. In televisione si usa spesso il termine acceso per definire un personaggio sotto l’occhio dei media e tra i favoriti del pubblico, in grado quindi di sviluppare grandi volumi di ricerca.
Più la piattaforma è circoscritta e più è facile trovare i supereroi della vostra storia. Sarà più semplice su una superficie delimitata come Netflix, rispetto a una popolata da milioni di creator indipendenti come TikTok o Instagram. Queste piattaforme non a caso si impegnano per creare incroci tra i personaggi principali della propria scuderia. Che sia attraverso le TikTok House o convention di YouTuber, ogni occasione è buona per cementare rapporti, crearne di nuovi, scoprire e coltivare star.
La capacità di produrre star power e celebrità è uno dei principali indici di salute di una piattaforma. Da Millie Bobby Brown che continua a comparire in nuove produzioni Netflix, alla serie di LOL su Amazon Prime Video composta da diverse edizioni e derivazioni. Anche su TV8 il nuovo programma di Victoria Cabello, Viaggi Pazzeschi, è uno spinoff della sua partecipazione a Pechino Express che l’aveva introdotta al pubblico del canale.
In pratica
Su Mediaset Infinity i format Party citati in precedenza sono a metà tra un programma televisivo e uno show di visual radio (la chiamano così…) in cui la componente talk crea l’occasione per approfondire le linee narrative dello star system della piattaforma Mediaset provando ad allargarne i confini verso mondi adiacenti come quello dei creator e degli influencer.
In questo senso era impossibile non cedere alla tentazione di far incontrare le due omonime Giulia Salemi, accumunate da uno stesso nome ma protagoniste di piattaforme differenti: star della tv e di Instagram una, e protagonista di TikTok l’altra.
Come si fa con gli speaker delle radio abbiamo anche cercato di creare un incrocio di volti che potesse mettere a fattor comune la popolarità di ciascuno, creando negli utenti un’abitudine alla connessione e a fare il tifo per l’intera squadra e non solo per il proprio presentatore o trasmissione preferiti.
Oltre ad un promo e una campagna di lancio che riunisse insieme i conduttori di diversi format (ad esempio Isola Party e Pupa Party) abbiamo creato un calendario di ospitate incrociate che potesse disegnare un piccolo universo condiviso di volti digitali riconoscibili mescolando i fandom dei due programmi con quelli dei conduttori degli show digital.
Perché fanno tutti reaction video?
In teoria
Nelle analisi sul fenomeno dei reaction video si parla spesso dell’importanza delle facce buffe degli YouTuber che giocano con un videogame o, quando le tendenze di YouTube si riempiono di video commenti a Il Collegio, si riconosce la loro utilità nel creare awareness su prodotti televisivi.
Quello che non è sottolineato abbastanza è la principale ragione per cui le video reaction abbondano, ovvero che si tratta della riproposizione di qualcosa che ha già avuto successo. Creare contenuti digitali è spesso un gioco a perdere dal punto di vista di costi-benefici, mentre fare la reaction a qualcosa di popolare significa aumentare drasticamente le possibilità di vittoria con uno sforzo produttivo minimo.
Le case di produzione o i gruppi editoriali che continuano a sfornare reboot e sequel di franchise famosi si comportano come i creator e gli streamer che basano la loro esistenza su reaction a materiale altrui. Che si tratti di proprietà intellettuali provenienti dai videogiochi o video di cantanti neomelodici, tutto ciò che funziona può essere oggetto di una rilavorazione di qualche genere. Meglio ancora quando si può aggiungere una narrazione complementare (un approfondimento o una presa in giro) che ne aumentano l’efficacia.
TikTok ha aggiunto la possibilità di reagire ai contenuti degli altri utenti tra le sue funzioni base, a proposito del non concentrarsi sul singolo contenuto ma lavorare sulla tecnologia per creare un intero filone. In tutti questi casi l’importante è non partire da zero ma salire sulle spalle dei giganti.
In pratica
Nel caso di Mediaset tra i giganti a cui appoggiarsi ci sono le soap e le serie televisive, tanto bistrattate dai critici quanto popolari presso il grande pubblico online. Ogni giorno tante persone che non sono riuscite a seguire l’episodio in tv vogliono recuperarlo in streaming.
Una strategia semplice e efficace è stata quella di creare internamente delle piccole reaction testuali che tenessero conto della conversazione online sui prodotti in onda in televisione. I contenuti video di maggior successo, soap o momenti topici degli show in onda, si mescolano alla reazione degli spettatori nei social, aggiungendo un layer editoriale e un motivo di visione.
I prossimi 10.000 video
Per capire cosa ci aspetta nel mondo dei contenuti conviene concentrarsi sull’aspetto tecnologico e di prodotto, farci “domande da Silicon Valley”.
Il solito Buzzfeed, che ultimamente non naviga in buone acque, ha annunciato un nuovo investimento sul fronte della collaborazione con i creator. Il progetto Catalyst è una sorta di agenzia di talent integrata con il resto del sito. Esperienze del genere sfumano sempre di più il confine tra contenuti prodotti internamente ed esternamente, così come tra quelli editoriali e quelli branded.
C’è poi ovviamente l’intelligenza artificiale. Si sprecano i tentativi, gli esperimenti e le sparate ad effetto per impressionare gli azionisti. Da un lato la possibilità di moltiplicare esponenzialmente la produzione di musica, video e testi sembra dietro l’angolo, dall’altro anche la loro distribuzione è destinata a cambiare.
Forse la rivoluzione più imminente provocata dai vari Chat GPT e Bard non sarà nella modalità di produzione dei contenuti, quanto nella loro scoperta. I motori di ricerca generativi sono quasi realtà: cosa accadrà quando Google e Bing non mostreranno più come risultato i soliti 10 link ma un testo creato automaticamente che non necessita di ulteriori click esterni?
Dopo aver previsto per anni la morte della televisione e più di recente quella delle piattaforme streaming, adesso anche la pagina web non si sente troppo bene.
Parliamo di contenuti
A maggio ho avuto il piacere di parlare di strategia video e ideazione di format con le top blogger di GialloZafferano che è forse la community di creator più grande d’Italia. Grazie a Mondadori Media per l’invito.
Se vuoi approfondire i temi di Scrolling Infinito e confrontarti su contenuti e strategia nella tua agenzia, azienda o scuola scrivimi a andrea.girolami[at]tiscali.it (mail vintage, lo so) e ne parliamo volentieri.
Ho già avuto il piacere di presentare Scrolling Infinito in agenzie come Sketchin, Gummy Industries, Imille, Undesign o scuole come IULM, INCOM Università di Bologna, ALMED Università Cattolica e Master Publitalia.
Segnalibri
The Streaming Book è un libro online (bella idea!) scritto da Matthew Ball, ex capo della strategia di Amazon Studios e autore di The Metaverse, che racconta la nascita e lo sviluppo della cosiddetta guerra dello streaming. Per i più pigri ho riassunto alcuni punti in un articolo su Linkedin.
Lunghissima newsletter su come l’intelligenza artificiale potrebbe cambiare la musica. Spoiler: le case discografiche non vedono l’ora.
Più guardare la televisione diventa un’abitudine solitaria e più abbiamo bisogno di condividerla con gli altri…ascoltando podcast?!
Gli scoop necessari: perché Stephen King indossa una maglia simpatica con una scritta in italiano sul set di un film anni ‘80? Ce lo racconta Pietro Minto.
Lenny Rachitsky lavorava per Airbnb poi è stato licenziato e ha deciso di aprire una newsletter. Oggi ha più di 400.000 iscritti e un podcast in cui chiacchiera con gente, tra cui il Chief Product Officer di Spotify.
Che bomba
Grazie, un approfondimento interessantissimo!