La creatività ha perso. E va bene così
La cattiva notizia è che le idee hanno ceduto il passo ai dati. La buona è che questo non è necessariamente un male.
In tanti abbiamo la stessa sensazione: in giro non si trova più nulla di originale. I cinema sono intasati da remake di film del passato o saghe di supereroi che si trascinano stancamente. In tv succede qualcosa di simile tra format ultradecennali e spinoff di saghe che abbiamo imparato a memoria. Anche le nuove piattaforme sembrano intrappolate nella gabbia dorata delle video challenge a cui siamo obbligati partecipare per avere una possibilità di farci notare.
Come siamo arrivati a questo punto? Volendo rispondere velocemente potremmo dire che se in passato abbiamo creato contenuti basandoci sul nostro istinto, oggi si parte sempre e comunque dai dati in nostro possesso. Non si fanno cose che pensiamo possano funzionare ma solo quelle che siamo sicuri avranno successo.
Il trionfo dei dati
A dirlo con chiarezza è Bela Bajaria, Chief Content Officer di Netflix, che intervistata dal New York Times descrive lo scarto generazionale e ammette come un tempo i programmi tv approvati da dirigenti “funzionavano perché volevano farli funzionare”, mentre oggi “quando si cerca di crescere il più velocemente possibile in più luoghi possibili non ci si può permettere di essere imbottigliati dalla sensibilità di una singola persona”.
Torna in mente la storia di un classico della nostra tv: il Karaoke di Fiorello. Per le prime settimane fu un vero flop di ascolti. Soltanto grazie alla perseveranza dei responsabili del palinsesto, che continuarono a mandarlo in onda, si trasformò nella pietra miliare che tutti abbiamo conosciuto.
Le parole di Bajaria sulla sensibilità personale che diventa un collo di bottiglia suonano come una resa incondizionata della capacità decisionale umana al mondo dei dati e degli algoritmi. La dirigente Netflix però ha le sue buone ragioni dato che il sistema dei media, non solo quello televisivo, si è dovuto adattare ad uno scenario concorrenziale senza precedenti.
Se avete ascoltato l’ultima puntata del podcast Indagini dedicata al conduttore televisivo Enzo Tortora anche voi avrete senz’altro sbarrato le orecchie quando Stefano Nazzi racconta di come il programma Portobello negli anni ‘70 riuniva davanti la televisione quasi 20 milioni di italiani. Per capirci: numeri doppi persino rispetto al record dell’attuale Festival di Sanremo. Per assurdo potremmo chiederci quante persone nel 2023 si sintonizzerebbero su Portobello potendo scegliere tra lo scrolling di TikTok, una puntata di Muschio Selvaggio su YouTube, una partita a Fortnite, senza citare le altre decine di canali televisivi a disposizione.
L’approccio data driven raccontato dai dirigenti di Netflix non è esclusivo delle piattaforme OTT. Madeline McIntosh, a lungo amministratrice delegata della più grande casa editrice del mondo, la Penguin Random House, aveva già detto al NYT: “Lavorare ad Amazon mi ha dato l’esperienza di essere immersa in una cultura dove tutte le decisioni sono prese guardando i dati [...] e la cosa buona di lavorare usando la matematica è che diminuiscono le discussioni attorno a una decisione da prendere”.
Il monopolio delle proprietà intellettuali
La prima conseguenza del basarsi esclusivamente sui dati è quello di creare i cosiddetti feedback loop, cortocircuiti per cui quando una cosa funziona si continua a produrla in quantità crescente finché il pubblico non dimostra di essersi stancato. Ecco spiegato il successo delle proprietà intellettuali (semplicemente IP in inglese) su cui sembra doversi basare ormai ogni cosa. Se bisogna investire decine di milioni di dollari producendo un nuovo film/videogioco/serie tv conviene farlo su qualcosa che abbia già dimostrato la sua efficacia.
Qualche tempo fa lo studioso della Columbia Business School Adam Mastroianni aveva analizzato l’abuso di proprietà intellettuali in vari ambiti della produzione di contenuti, dal cinema alla televisione, dalla musica ai libri, costruendo dei grafici che dimostrano come l’utilizzo di IP già conosciute al grande pubblico sia alla base della quasi totalità di nuove uscite nei vari campi industriali.
Scrive Mastroianni: “Fino all’anno 2000 circa il 25% dei film col maggiore incasso dell’anno erano prequel, sequel, spinoff, remake, reboot o parti di un universo cinematico. Dal 2010 questa percentuale è salita al 50%, arrivando vicina al 100% in questi ultimi anni”. Senza dover scomodare i nostri vecchi esami di statistica proviamo a verificare questa teoria analizzando cosa accade nel nostro paese.
Che cosa succede in Italia
Molti degli show della tv nazionale sembrano esistere da sempre. Ma provate ad immaginare il terrore di chi deve prendersi la briga di sostituire un talk show o un reality che continua a soddisfare il pubblico da decenni con qualcosa di completamente nuovo, sapendo che dall’altra parte dello schermo c’è una platea sempre più anziana, sempre meno disposta al cambiamento.
Del resto anche i player televisivi più giovani ricorrono allo stesso metodo per partenogenesi, producendo contenuti a partire da ciò che ha già avuto successo. Così su Amazon Prime un format recente come LOL - Chi ride è fuori ha già avuto diverse edizioni. Queste sono state inframezzate da speciali natalizi, da uno spinoff social come Generazione LOL e da una serie tv come Sono Lillo che tenta di tradurre in intrattenimento scripted una property nata in un formato unscripted.
Nel cinema il meccanismo è ancora più stringente. Perfetti Sconosciuti, il film di Paolo Genovese del 2016, è stato adattato ben 26 volte in tutto il mondo. La storia è raccontata bene da Gabriele Niola su Il Post dove scrive come questo genere di pellicole remixabili sono definite High Concept, vale a dire film “il cui intreccio è basato su un elemento chiaro, facilmente comunicabile e di immediato interesse”.
(video via Ellissi)
La produzione cinematografica somiglia dunque sempre più a quella televisiva di quiz o reality basati su format ben codificati in cui il set di regole e ambientazioni rimane lo stesso per ogni edizione e a cambiare sono solo i protagonisti o la location. Non troppo diverso quel che accade nelle saghe supereroistiche della Marvel: il meccanismo narrativo tra una serie e l'altra resta quasi identico e a cambiare sono solo i poteri del protagonista o la sua provenienza geografica.
La musica non è da meno: mentre scrivo è in corso il Festival di Sanremo dove gran parte del cast è composto da vecchie glorie che approfittano della serata dei duetti e delle cover per eseguire davanti ad un pubblico nuovo i loro grandi successi del passato, come se l’unico obiettivo dell’occasione televisiva sia quello di dare una seconda vita ad un repertorio da monetizzare nuovamente grazie alle piattaforme di streaming.
Non è tutto oro
Leggendo quanto scritto fin qui sembra che creare successi sia un processo banale: basta guardare i dati, prendere quello che funziona e ripeterlo allo sfinimento. La verità è che col passare del tempo è sempre più difficile far nascere delle hit.
Secondo i dati pubblicati dalla Warner Music nel 2012 le 5 più grandi superstar della casa discografica generavano ben il 15% degli introiti sulle incisioni musicali (sia fisiche che digitali). Dieci anni dopo, nel 2022, i 5 artisti più importanti della stessa major portano a casa soltanto il 5% della stessa tipologia di guadagni. Il resto è diviso all’interno di una coda lunghissima composta da un’infinità di artisti e canzoni, ciascuno in possesso di una piccolissima fetta di mercato.
La musica è da sempre una cartina tornasole (dal peer to peer di Napster in poi) di quello che di lì a poco accadrà nelle altre industrie dei contenuti. La sensazione è che in futuro ci sarà una frammentazione sempre più grande dei consumi in cui la parte dei successi globali sarà più piccola che in passato e proprio per questo da tutelare con ancora più attenzione.
Chi ha già degli assi nella manica continuerà a puntare su quelli invece di investire senza garanzie su ciò che potrebbe essere. Ecco perché le case discografiche sono più interessate a piazzare una vecchia hit nella nuova serie tv di grido (Kate Bush anyone?) piuttosto che rischiare investendo su emergenti (anche se questi vengono ormai contrattualizzati solo dopo aver avuto un exploit su TikTok).
Allo stesso modo un colosso come Disney+ continua a sfruttare le enormi proprietà intellettuali in suo possesso (Star Wars, Marvel) invece che inventarne di nuove. Paradossalmente chi è costretto a creare da zero è proprio Netflix da cui è partito il nostro ragionamento. Dato che la sua nascita è relativamente recente non aveva IP consolidate da sfruttare ed è stato costretto a crearne di nuove con grandi investimenti e altissimi rischi. Una volta trovato il filone giusto, però, il ciclo è lo stesso di tutti gli altri e infatti presto arriverà un reality show basato su Squid Game, la serie di più grande successo di sempre della piattaforma .
Tecnici e creativi
Non ho nulla contro questo metodo ingegneristico di creare contenuti, anzi penso sia una risposta legittima alla guerra dell’attenzione che chiunque lavori nell’ambito dei media combatte quotidianamente. Dirò di più: quando in passato mi è capitato di ascoltare colleghi di un’altra generazione, nell’editoria cartacea come in quella televisiva, raccontare di come un tempo si prendevano decisioni di pancia (un tempo c’erano molti meno numeri da tenere d’occhio), non ho potuto fare a meno di rimanere incredulo. Sarebbe un po’ come costringere un meteorologo a confrontarsi con un aruspice che esamina le viscere di un uccello per capire che tempo farà domani.
In questa newsletter ho provato a restituire la complessità dello scenario approfondendo le ragioni di chi si affida ai numeri più che alle idee ma in chiusura non resisto alla tentazione di prendere in prestito le parole di Gianpietro Vigorelli, vecchia volpe della pubblicità anni ‘80 e papà di Jake La Furia dei Club Dogo. Intervistato da Rolling Stone Vigorelli risolve la battaglia tra istinto e numeri con una battuta tanto parziale quanto fulminante: “La forza del creativo è l’errore: se puoi sbagliare lo sei, altrimenti diventi solamente un tecnico”.
Parliamo di contenuti
Se vuoi approfondire i temi di Scrolling Infinito e confrontarti su contenuti e strategia nella tua agenzia, azienda o scuola scrivimi a andrea.girolami@tiscali.it (mail vintage, lo so) e ne parliamo volentieri.
Ho già avuto il piacere di presentare Scrolling Infinito in agenzie come Sketchin, Gummy Industries, Imille, Undesign o scuole come IULM, INCOM Università di Bologna, ALMED Università Cattolica e Master Publitalia.
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Tra ChatGPT, dati e compagnia bella... sembra che la creatività sia messa a dura prova di questi tempi!
Addio tempi alla Mad Man (e non che ne sia contrariata del tutto!)
Mi piace prendere decisioni basandomi sui dati, ma l'empirismo e umanesimo di cui noi *umani* (o noi popolo italiano creativo per natura) siamo capaci, non sparirà mai del tutto.
Ciao Andrea, mi sa che c'è un errore: 2021 invece di 2012. 👉🏻 "Secondo i dati pubblicati dalla Warner Music nel 2021 le 5 più grandi superstar...". A parte questo, ho letto davvero volentieri l'articolo. 👍🏻