8 grafici sulla crisi della TV. E il segreto per salvarla
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Sarà una conversazione aperta e ci sarà spazio per le domande del pubblico.
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Al termine dell'intervista, avremo l'opportunità di conoscerci di persona: un momento dedicato al networking tra appassionati di digitale, newsletter e creatività per condividere impressioni, idee e fare due chiacchiere, un brindisi e una battuta.
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La verità sulla crisi della TV. E come salvarla
“Come sei finito in bancarotta? In due modi. Gradualmente, poi all'improvviso”.
La citazione è tratta dal libro Fiesta di Ernest Hemingway ma è usata spesso anche in ambito tecnologico per descrivere l’accelerazione di alcuni processi di discontinuità, tanto che anche gli amici del podcast Actually la usano per introdurre ogni puntata.
Proprio come nella bancarotta descritta da Hemingway, anche la crisi della televisione sta seguendo un andamento prima graduale, poi – forse – improvviso.
Anche se ancora in buona salute, soprattutto in Italia, i numeri confermano che la TV lineare non è più la forza egemonica di un tempo: si registra un calo degli spettatori, un aumento della loro età media e una crescente frammentazione dei consumi, che divide la nostra attenzione tra un numero crescente di piattaforme, alcune delle quali assolutamente inaspettate.
Prima di entrare nella seconda fase, quella della decadenza improvvisa, la TV deve chiedersi come riuscire a sopravvivere in un contesto mediatico mutato, dove il suo primato è irrimediabilmente messo in discussione.
Una risposta al dubbio esistenziale della televisione viene dal mercato musicale: 20 anni fa Napster, e poi Spotify, hanno scorporato la musica dai supporti fisici, proprio come YouTube ha tolto l’esclusiva dei contenuti video alla TV.
L’industria musicale, dopo un lungo periodo di difficoltà, è stata capace di superare lo shock tecnologico e oggi è tornata a prosperare. Per fare questo ha rinunciato al suo ruolo di distributore, diventando invece un incubatore di talenti.
Partiamo analizzando tutti i numeri della crisi della TV e cercheremo poi di capire come la lezione dell’industria musicale può contribuire a salvarla.
Il declino della TV
Negli USA c’è uno scenario televisivo diverso da quello italiano: la televisione lineare si intreccia con quella via cavo, a pagamento, che negli ultimi anni sta subendo un crollo quasi verticale.
L’adozione della Pay TV negli Stati Uniti ha raggiunto il suo picco nel 2012, un anno prima che Netflix debuttasse nel mercato dei contenuti originali, e da allora ha registrato undici anni consecutivi di calo degli abbonamenti. Nel 2023, il numero di famiglie abbonate a un’offerta di TV via cavo è diminuito del 44% rispetto alla quota raggiunta nel 2012.

Se la televisione a pagamento piange, quella lineare non ride. Il suo problema principale è la concorrenza delle piattaforme digitali come TikTok e YouTube, oltre a quelle streaming come Prime Video, Netflix e Disney+.
La società di analisi Emarketer stima che negli Stati Uniti nel 2025 ci saranno 236,4 milioni di utenti mensili dei social network, a fronte di 228,6 milioni di spettatori mensili della TV lineare.

Calano le persone che guardano la TV e, di conseguenza, diminuiscono gli investimenti pubblicitari. L’ingresso nel mercato degli spot delle piattaforme streaming non basta a compensare la crisi della televisione lineare.
Rimanendo negli USA il Wall Street Journal riporta che, escludendo la pubblicità elettorale, nel 2024 si sono investiti oltre 60 miliardi di dollari, tra televisione tradizionale e digitale, un calo rispetto ai 64 miliardi di cinque anni fa.

Se guardiamo al di fuori degli Stati Uniti, troviamo un contesto parzialmente diverso. In Italia ad esempio la situazione per la TV è decisamente migliore. Qui la televisione lineare ha una maggiore rendita di posizione rispetto ai competitor digitali, sia per questioni di penetrazione tecnologica che di abitudini culturali.
Nonostante questo, come riportato da Lelio Simi che ha raccolto dati Nielsen, gli investimenti pubblicitari televisivi sono sostanzialmente fermi da almeno un decennio, stabili intorno ai 3 miliardi di euro, con l’eccezione del periodo della pandemia.

Se tanti numeri della televisione sono in ribasso altri invece sono in crescita, solo che non sono quelli giusti. L’età media degli spettatori televisivi aumenta in maniera preoccupante, una minaccia alla sostenibilità a lungo termine del medium.
Francesco Siliato, media analyst dello Studio Frasi, una delle società più attente all’analisi dei consumi mediatici italiani, nel 2023 dichiarava che l’età media degli spettatori della televisione lineare italiana era di 57 anni, ed è legittimo pensare che nei due anni successivi sia ulteriormente aumentata.
Quello dell’invecchiamento della platea televisiva non è un problema solo di un paese gerontocratico come l’Italia. Fa impressione pensare che negli USA lo spettatore medio di un canale giovanilistico come MTV abbia 51 anni, quello di Fox News 69 e quello della CNN 67. Le cifre sono simili anche per i canali lineari: l’età media di chi guarda la CBS è di 64 anni e di 66 per la ABC.

Tutti i rivali della TV
L'invecchiamento del pubblico televisivo è una conseguenza diretta della migrazione dei giovani spettatori verso piattaforme alternative. Questa frammentazione dell'audience è il risultato di un ecosistema mediatico radicalmente trasformato negli ultimi anni.
Oggi, l'attenzione del pubblico è contesa da nuovi attori che insidiano il primato della TV come punto di riferimento per gli investitori pubblicitari, creando però alternative economiche meno remunerative.
Sempre il Wall Street Journal stima che negli USA i network televisivi hanno circa 14 minuti di pubblicità ogni ora, mentre le piattaforme streaming come Netflix e Amazon Prime Video ne trasmettono soltanto 4. Inoltre chi usufruisce di questo tipo di servizi è molto meno propenso a vedere i propri contenuti interrotti da messaggi pubblicitari.
Per la televisione tradizionale sono due i rivali più temibili. Il primo è YouTube che, come abbiamo scritto più volte, è diventata la piattaforma più vista in assoluto sulle televisioni connesse americane. Anche in Italia YouTube è il secondo sito più visitato dopo Google e il secondo social in cui passiamo più tempo, subito dopo TikTok.
Il secondo principale competitor della TV tradizionale è Amazon che sfrutta il suo grande peso tecnologico per scardinare il mercato pubblicitario televisivo tradizionale.
L’offerta Prime Video raggiunge infatti un’enorme quantità di persone, proprio perché abbinata agli altri servizi della piattaforma di shopping online. In USA la reach dei suoi spot è quasi dieci volte quella di Netflix, di cui solo una minima parte degli abbonati (7,5 milioni, il 10% del totale) ha sottoscritto un abbonamento che comprende la presenza di interruzioni pubblicitarie.
Prime Video infatti inserisce la pubblicità come impostazione predefinita per tutti i suoi abbonati che sono costretti a pagare nel caso vogliano evitarla, proprio come succede con YouTube e la sua offerta premium.
Amazon in generale, prescindendo dalla sua offerta video, si è trasformato in un cosiddetto retail media, ovvero un sito dedicato allo shopping che vende anche pubblicità e, dunque, entra in competizione con tutti gli altri media per l’attenzione del pubblico.
Negli USA il 2025 sarà l’anno in cui i retail media supereranno la TV tradizionale in quanto a guadagni dalla vendita di spazi pubblicitari.
Senza neanche accorgersene la televisione si è ritrovata ad affrontare la concorrenza dei social network, delle piattaforme streaming e persino dei siti di ecommerce. Gli inserzionisti comprano pubblicità particolarmente volentieri all’interno di un sito che ha il solo obiettivo di vendere qualcosa a qualcuno.
Il modello delle etichette discografiche
Di fronte a questa agguerrita concorrenza su molteplici fronti, quale futuro attende la televisione tradizionale? Per rispondere a questa domanda, è illuminante guardare a un'altra industria che ha già attraversato una crisi esistenziale simile e ne è uscita trasformata, ma rafforzata: l'industria musicale
Agli inizi del 2000 Napster e la tecnologia Peer to peer avevano sottratto alle multinazionali della discografica l’esclusiva della distribuzione musicale che circolava liberamente online, moltiplicando competitor e stravolgendo il suo modello di business.
Eppure, a distanza di 20 anni, oggi le case discografiche continuano ad esistere e l’industria musicale nel suo complesso è tornata a prosperare, come ci sono riusciti?

Le etichette discografiche hanno cambiato la loro natura e sono passate dall'essere distributori di contenuti ad acceleratori del talento dei creator, ovvero i musicisti.
Come ha scritto anche l’analista Doug Shapiro le major hanno capito che, in un mondo dove i contenuti sono abbondanti e sfuggono al loro controllo, ci sono ancora cose per cui restano indispensabili, ad esempio:
Facilitare la scalabilità di un progetto creativo
Gli artisti non hanno bisogno del permesso delle case discografiche per lanciare la propria carriera, ma devono avere aiuto per riuscire a crescere oltre una certa soglia, soprattutto in un ambiente sempre più competitivo. Le etichette discografiche oggi fanno soprattutto questo, aiutano gli artisti emergenti a diventare superstar offrendo anticipi economici, supporto al marketing, distribuzione e consulenza creativa. Puoi registrare il tuo primo disco in cameretta, ma collaborare con una grande casa discografica spesso vuol dire poter accedere a studi di registrazione professionali e collaborare con produttori e autori che fanno la differenza nel prodotto finale.Mediazione con le piattaforme streaming
Un altro vantaggio critico delle case discografiche è quello di avere un grande potere contrattuale con i servizi di streaming musicale che a loro volta sono disperatamente in competizione tra loro. Il fatto di possedere grandi cataloghi di musica, fondamentali per il successo di qualunque piattaforma, garantisce alle etichette discografiche il potere contrattuale di garantire posizionamenti vantaggiosi per i propri artisti come l’inserimento in determinate playlist o determinati accordi di promozione marketing e visibilità.Certificazione del talento
Ancora oggi qualunque artista che raggiunga un certo livello di successo finisce col firmare un contratto per un’importante etichetta discografica. Il mix di elementi menzionati, la capacità di far scalare un progetto e quello di fare da mediatori con altre piattaforme, ha mantenuto intatta la reputazione delle case discografiche come luoghi attrattivi per i più grandi talenti che vedono così certificato il valore della loro proposta.
Ad esempio l’etichetta Firebird, fondata da uno dei boss del brand di chitarre Gibson e dall’ex CEO di Ticketmaster, è nata con l’obiettivo di sfruttare al massimo il talento dei musicisti sotto contratto, al di là delle canzoni, trattandoli come veri imprenditori del proprio brand.
Yungblud, uno degli artisti sotto contratto con Firebird, ha già lanciato una linea di abbigliamento che verrà venduta anche in una serie di negozi fisici con all’interno dei caffè dove mangiare e lavorare. Oltre a questo Yungblud sta organizzando la seconda edizione del suo festival BludFest. La prima aveva venduto 30,000 biglietti, la seconda è in linea per superare questa cifra.
La TV del futuro
Le strategie che hanno permesso all'industria musicale di passare da mero distributore a vero e proprio incubatore offrono un prezioso modello per la televisione. Tuttavia, applicare queste lezioni richiede un adattamento al contesto specifico del medium televisivo, che presenta fondamentali differenze rispetto a quello musicale.
Ad esempio l’archivio televisivo è meno importante di quello musicale. Anche se non ci stanchiamo mai di rivedere le vecchie puntate di Friends e Suits, difficilmente lo faremo per centinaia di volte, come succede con l’ascolto dei grandi successi musicali del passato.
Per aumentare il valore del proprio archivio di contenuti video, e monetizzarlo in modo più efficiente, sempre più media provano a costruire un solido portafoglio di proprietà intellettuali (format originali, personaggi, storie o programmi riconoscibili e registrati) legati a brand forti.
Anche la società di consulenza Bain consiglia a qualunque media company di acquistare un gran numero di proprietà intellettuali evergreen, così da poter competere con i grandi player tecnologici e generare ricavi non solo da pubblicità e abbonamenti ma anche da merchandise ed eventi speciali.
Ad esempio in Inghilterra l’emittente Channel 4 ha lanciato il progetto 4Studio per distribuire in modo capillare i propri contenuti nelle piattaforme digitali con l’obiettivo di far crescere il fandom dei suoi show per poi monetizzarlo in altre maniere. Oltre a questo ha iniziato a produrre contenuti originali per i social per fare scouting di nuovi talenti e format da rilanciare, eventualmente, nei suoi canali lineari.
Mentre molte altre emittenti televisive e media tradizionali faticano ad adattarsi, alcuni creator digitali stanno già implementando con successo questo modello da incubatore di talenti.
Il collettivo di creator Dude Perfect (60 milioni di iscritti su YouTube) ha usato parte del finanziamento da 100 milioni di dollari recentemente ricevuto per costruire uno studio da 50mila metri quadri per la creazione di contenuti, per collaborare e inglobare altri creator più piccoli.
In maniera simile il giornalista e creator Johnny Harris (6,6 milioni di iscritti su YouTube) ha annunciato il progetto The NewPress attraverso cui sta assumendo una serie di altri reporter-creator (i primi sono Tunnel Vision e Search Party) che avranno il supporto della sua società per vendere progetti commerciali, oltre che per la produzione di video e la loro promozione.
Nel suo piccolo anche in Italia il podcaster Gianluca Gazzoli, come raccontato durante il nostro incontro, ha iniziato a produrre, attraverso il suo format Passa dal BSMT, altri podcast e, in futuro, anche format video.
Per evitare un crollo improvviso, la TV del futuro deve ispirarsi al modello delle etichette discografiche: iniziare a coltivare talento, offrendo ai creator più ambiziosi ciò che oggi ancora manca.
Budget per rischiare, spazi per sperimentare, e soprattutto l’esperienza per riconoscere ciò che funziona davvero. Perché, anche nell’era dei social, nessuno conosce il pubblico meglio di chi lo ha intrattenuto per cinquant’anni.
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📺 Guarda la Creator Masterclass di Ale Della Giusta
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Il suo manuale per video da 1M di views
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"L'invecchiamento del pubblico televisivo è una conseguenza diretta della migrazione dei giovani spettatori verso piattaforme alternative" e forse anche migrazione fisica. Un po' un caso di survival bias?