No, i cellulari non fanno venire la depressione
Ho raccolto centinaia di link e letto decine di studi. Ecco cosa ho capito
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Oggi scrivo di un argomento importante, di cui si discute sempre in modo troppo confuso. Cercheremo di capire se è vero che gli smartphone e i social network sono dannosi per la salute mentale, in particolare quella degli adolescenti.
Prima però voglio invitarti al prossimo evento di Scrolling Infinito: una serata per imparare dai migliori content creator e per conoscerci dal vivo.
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No, i cellulari non fanno venire la depressione ai tuoi figli
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C’è tanta tristezza in giro. Soprattutto tra gli adolescenti. La percentuale di ragazzi alle prese con problemi mentali sembra in aumento, così come il disagio che percepiamo intorno a noi. Ce lo dicono gli amici che hanno figli nelle scuole: la situazione è preoccupante. Lo scrivono i giornali che parlano ogni giorno di un panorama sempre più grigio.
Qual è la causa di questo trend negativo che va avanti da almeno una decina d’anni? Cosa è successo agli inizi degli anni 2000 che ha portato ad uno squilibrio mentale nella società? Semplice: sono arrivati gli smartphone e i social network. Il primo iPhone è stato commercializzato nel 2007 e da lì in poi è andato tutto a rotoli. Sono questi gadget che governano le nostre giornate, sono loro la causa di tutti i nostri problemi e quelli dei nostri figli.
Ma siamo sicuri che la risposta sia così semplice? La sensazione che proviamo nelle viscere è quella giusta? Non è la prima volta che la tecnologia diventa il parafulmine di tensioni che attraversano la società. Qualunque invenzione della storia umana è stata demonizzata: la stampa a caratteri mobili, i videogiochi, internet e, addirittura, i cercapersone che, siccome venivano usati dagli spacciatori, erano automaticamente pericolosi anche per tutti gli altri.
La situazione però è un po’ più complicata e, come proverò a spiegare in questo post, i dati e gli studi scientifici raccontano una realtà che smentisce le sensazioni di pancia che proviamo e le verità superficiali che leggiamo nelle prime pagine dei giornali.
Cosa troverete in questo post:
Le accuse contro gli smartphone
Come stanno i ragazzi?
Cosa dicono davvero gli studi
Le ricerche non sono tutte uguali
La risposta alle critiche
Dalla censura all’educazione
Le accuse contro gli smartphone
Il Financial Times titola: “Gli smartphone e i social media stanno distruggendo la salute mentale dei bambini”. Gli fa eco il Wall Street Journal che scrive “Facebook sa che Instagram è tossico per le adolescenti, lo dimostrano documenti interni all’azienda”. Sono solo due titoli inquietanti, scelti tra le decine che settimanalmente vengono pubblicati dalla stampa di tutto il mondo.
L’Italia non è da meno. Gli esempi sono innumerevoli, tra questi anche gli editoriali di una firma importante come quella di Aldo Cazzullo che, con tono paternalistico, invita tutti a “Mettere via quel cellulare”, sostituendolo, immagino, con uno dei suoi libri.
Proviamo a fare un gioco: cercate la parola “smartphone”, “cellulari” o “telefonini” (la mia preferita) dentro Google News per vedere cosa esce fuori. Quasi sempre il risultato contiene notizie legate all’aspetto dannoso, inquietante e malevolo di questi gadget tecnologici.
Sono però gli USA a guidare la crociata contro gli smartphone. Solo negli ultimi mesi il governatore della Florida Ron DeSantis ha vietato ai ragazzi minori di 14 anni di utilizzare le piattaforme social e il Ministro della Sanità americano Vivek Murthy ha dichiarato che i social media sono un “grande rischio di danno”.
L’Italia si muove di conseguenza e una circolare del Ministro Valditara invita a “evitare l’utilizzo” dei cellulari in classe, anche nel caso che questo venga usato per scopi didattici. Non si tratta però di un vero e proprio divieto, ma soltanto di un consiglio.
Autori importanti come il biologo evoluzionista Daniel Lieberman scrive che la tecnologia ci ha reso pigri e inattivi e quindi più vulnerabili agli eventi ambientali che ci circondano. Gli fa eco lo scrittore Johann Hari che nel suo libro “Lost Connections” si lamenta di come oggi abbiamo: “Amici di Facebook al posto dei vicini, videogiochi al posto di un lavoro utile, aggiornamenti personali al posto di ciò che accade nel mondo”.
Fioccano accuse nei confronti dei social network e di tutti i dispositivi che permettono di accedervi e aleggia una certa nostalgia per tempi passati, più autentici e dunque migliori, in cui la tecnologia non ci teneva distanti gli uni dagli altri, e non ci impediva di sperimentare la “vita vera”, qualunque cosa voglia dire.
Recentemente le polemiche hanno fatto un salto di qualità con l’uscita di un libro: “The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness”. L’autore è Jonathan Haidt, docente di psicologia sociale alla New York University, da tempo impegnato in questo genere di ricerche e molto attivo nel suo blog nel sollevare timori e perplessità sull’uso della tecnologia da parte dei più giovani.
Haidt ha collaborato spesso con Jean Twenge, anche lei psicologa e professoressa all’Università di San Diego, autrice, tra l’altro, di un altro testo molto letto e molto discusso dal titolo ugualmente aggressivo: “Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti”.
Haidt scrive che gli smartphone e i social media sono i principali responsabili del logoramento della salute mentale dei ragazzi di tutto il mondo. Secondo Haidt tutto ha iniziato a precipitare nei primi anni del 2010, quando la Apple ha introdotto la videocamera frontale negli iPhone e, pochi mesi dopo, Instagram è arrivato nell’App Store.
Secondo l’autore questa combo è stata fatale: i ragazzi hanno iniziato a passare tutto il loro tempo online e il risultato è stata “un’onda anomala” di ansia e depressione che ha colpito in particolare le ragazze più giovani.
Ma non basta, sempre secondo Haidt, il vero problema, conseguenza della diffusione degli smartphone, è che i ragazzi occidentali sono allevati in un’atmosfera di “sicurismo” che li costringe a giocare in ambienti chiusi, senza possibilità di misurarsi con piccoli rischi quotidiani, o praticare sport.
Questa teoria somiglia ai tanti meme che popolano certi gruppi Facebook per cui: “un tempo si giocava sulle giostre e ora siamo tutti scemuniti davanti lo schermo del telefono”.
Data la fama dello studioso, i toni allarmistici delle sue teorie e l’isteria diffusa, il libro ha avuto l’effetto di una bomba nucleare di ansia. La pubblicazione ha provocato l’uscita di una nuova serie di titoli di giornali che hanno fatto aumentare ulteriormente il panico tra genitori e adulti. Il Guardian ha parlato degli smartphone come di “sacchetti pieni di veleno”, il New Yorker di una “emergenza di salute mentale” e il Wall Street Journal ha scritto “ora sappiamo il vero orrore di ciò che è successo”.
Come stanno i ragazzi?
I dati su cui si basano le preoccupazioni della stampa, oltre che del libro di Haidt, provengono principalmente da un sondaggio periodico fatto negli Stati Uniti dal
Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo nazionale di controllo sulla sanità pubblica. In particolare dall’ultimo studio che traccia l’andamento dei comportamenti degli adolescenti dal 2011 al 2021.
Ad una prima occhiata, in effetti, i dati sulla salute mentale dei giovani americani sembrano in peggioramento. Nel periodo che va dal 2011 al 2021 quasi tutti gli indicatori mostrano un deterioramento della salute mentale degli adolescenti, un aumento dei pensieri suicidi e dei comportamenti autolesionisti. Solo la percentuale di studenti effettivamente feriti in un tentativo di suicidio è rimasta stabile.
Nel 2021, il 42% degli studenti delle scuole superiori si è sentito triste o senza speranza quasi ogni giorno, per almeno due settimane di fila, tanto da smettere di portare avanti le normali attività. Le ragazze sono ancora più sensibili a questo tipo di pensieri rispetto agli studenti di sesso maschile.
Ragazze e studenti LGBQ+ hanno maggiori probabilità di soffrire di problemi mentali o fare pensieri suicidi. Quasi il 60% di tutte le studentesse di sesso femminile e il 70% degli studenti LGBQ+ hanno provato un persistente stato di tristezza o perdita di speranza.
Lo scenario è quello di una guerra dove il campo di battaglia sono le scuole superiori americane e le armi, apparentemente, gli smartphone che i ragazzi tengono in mano ogni giorno.
L'apice della disperazione è però il momento giusto per iniziare a superare la superficie della questione, e cominciare ad analizzarla nella sua complessità.
Prima di tutto nel CDC commissionato dal Governo americano la parola smartphone, cellulare o simili non viene mai scritta: il collegamento tra i problemi adolescenziali e le loro possibili cause tecnologiche è stato fatto dagli autori che hanno messo in correlazione i fenomeni in maniera indipendente.
Il New York Times racconta anche che la spiegazione più probabile di un logoramento, così grave e improvviso, nella salute mentale di un’intera generazione non è frutto di innovazioni tecnologiche o drammi sociali, quanto un fenomeno legato ad un cambio nelle modalità diagnostiche.
Nel 2011 il Dipartimento della Salute e dei servizi umani US ha emesso una nuova serie di linee guida che chiedeva che le ragazze adolescenti venissero sottoposte annualmente a screening per la depressione da parte dei loro medici di base e che le compagnie assicurative coprissero i costi degli esami. A questo si aggiunge che nel 2015, il Dipartimento della Salute americano ha imposto un cambiamento di codifica, proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità quasi due decenni prima, che chiedeva agli ospedali di registrare se un infortunio era autoinflitto o accidentale e che, apparentemente, ha quasi raddoppiato i tassi di autolesionismo in tutti i gruppi demografici da un giorno all’altro.
Se la salute mentale dei ragazzi fosse legata all’utilizzo di smartphone e social network i dati riscontrati negli Stati Uniti dovrebbero essere simili a quelli del resto del mondo, visto che gli stessi dispositivi e piattaforme sono utilizzati, con le stesse modalità, in tutte le nazioni occidentali.
Come ha documentato anche il professore all’Università di Oxford Max Roser, i tassi di suicidio tra gli adolescenti e i giovani adulti sono rimasti pressoché stabili, o sono diminuiti, nello stesso periodo in Francia, Spagna, Italia, Austria, Germania, Grecia, Polonia, Norvegia e Belgio. In Svezia si sono registrati aumenti molto modesti. In Danimarca, dove nel 2017 la penetrazione degli smartphone è stata la più alta al mondo, i tassi di ospedalizzazione per autolesionismo tra i giovani tra i 10 e i 19 anni tra il 2008 e il 2016 sono diminuiti di oltre il 40%.
In Germania negli ultimi anni c’è stato appena un quarto dei suicidi tra le donne dai 15 ai 20 anni rispetto ai primi anni ’80, e il numero è rimasto stabile per più di due decenni. In Gran Bretagna, la percentuale di giovani che hanno riferito di “sentirsi giù” o di soffrire di depressione è cresciuta dal 31% del 2012, al 38% alla vigilia della pandemia, al 41% nel 2021. Ciò è significativo, anche se secondo altri parametri gli adolescenti britannici appaiono più depressi di quanto lo fossero negli anni 2000, ma non molto di più di quanto lo fossero negli anni '90. Infine in Corea del Sud, probabilmente uno dei paesi con una maggiore penetrazione tecnologica al mondo, gli episodi di depressione tra gli adolescenti sono diminuiti del 35% tra il 2006 e il 2018.
Quando i dati vengono osservati dalla prospettiva corretta l’isteria nei confronti di smartphone e social network perde consistenza. Una consapevolezza che aumenta analizzando in profondità le ricerche alla base dei testi più allarmistici, a partire proprio dal libro “The Anxious Generation” di Jonathan Haidt.
Cosa dicono davvero gli studi
Prima di tutto si è scoperto che i dati elaborati da Meta sull’utilizzo delle sue piattaforme, e rilanciati dai principali giornali del mondo con titoli spaventosi, erano del tutto “inconcludenti” perché basati solo su sondaggi, senza verifiche con gruppi di controllo.
Anzi, sempre come riportato dal New York Times, nei sondaggi fatti da Facebook tra i propri utenti che avevano avuto pensieri suicidi, sono più le persone che hanno trovato sollievo dall’utilizzo di Instagram rispetto a quelle che hanno avuto un peggioramento.
La ricerca più esaustiva e citata riguardo le conseguenze sulla salute mentale e l’utilizzo della tecnologia da parte degli adolescenti è quella pubblicata da Andrew Przybylski, direttore delle ricerche presso Oxford Internet Institute, e Amy Orben, ricercatrice nello stesso istituto e docente di psicologia al The Queen’s College, sempre presso l’Università di Oxford.
La ricerca si intitola in maniera molto chiara: “There Is No Evidence That Associations Between Adolescents’ Digital Technology Engagement and Mental Health Problems Have Increased”, ed è stata pubblicata anche nella prestigiosa rivista scientifica “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Gli studiosi hanno preso in esame un ampio campione di 10,000 ragazzi, preadolescenti e adolescenti, incrociando queste rilevazioni con quelle di circa un decennio di dati longitudinali sugli adolescenti britannici.
Raccontano gli stessi autori della ricerca al The Guardian: “Eravamo interessati a verificare se i cambiamenti nell’uso dei social media nel tempo anticipassero effettivamente i cambiamenti nella soddisfazione della vita, e anche se tali cambiamenti influenzassero il successivo utilizzo dei social media. In termini semplici, sei più propenso a “usarli” se sei felice o triste? Cosa abbiamo trovato? Beh, per lo più niente! In più della metà delle migliaia di modelli statistici che abbiamo testato, non abbiamo trovato altro che rumore statistico casuale. Nella parte restante, abbiamo riscontrato alcune piccole tendenze nel tempo, per lo più raggruppate nei dati forniti da ragazze adolescenti. La diminuzione della soddisfazione nei confronti della scuola, della famiglia, dell’aspetto fisico e degli amici faceva presagire un aumento dell’uso dei social media e l’aumento dell’uso dei social media ha preceduto la diminuzione della soddisfazione nei confronti della scuola, della famiglia e degli amici. Puoi quindi vedere come, se fossi determinato a estrarre una storia, potresti inventarne una sulle ragazze adolescenti e sull'infelicità. Ma, e questo è fondamentale, non è esagerato affermare che questi effetti erano minuscoli rispetto agli standard della scienza e banali se si vogliono dare informazioni utili ai genitori. I nostri risultati hanno indicato che il 99,6% della variabilità nella soddisfazione della vita delle ragazze adolescenti non aveva nulla a che fare con quanto utilizzano i social media”
Ai giornalisti di Wired America gli studiosi hanno ulteriormente sintetizzato la questione: “Abbiamo scoperto che indossare gli occhiali ha un’associazione negativa maggiore con il benessere degli adolescenti rispetto all’uso della tecnologia digitale”.
Se la ricerca di Przybylski e Orben è riconosciuta come una delle più esaustive e citate sull'argomento, anche la celebre rivista Nature ha pubblicato un articolo molto critico verso il tono e le conclusioni del libro di Haidt.
A firmare l’intervento è Candice L. Odgers, preside associato per la ricerca e professoressa di scienze psicologiche e informatiche presso l'Università della California. Secondo la Odgers il testo di Haidt è doppiamente pericoloso perché: “La teoria secondo cui la tecnologia sta modificando il cervello degli adolescenti, causando un'epidemia di problemi mentali, semplicemente non è supportata dalla scienza. Quel che è peggio è che l’audace proposta che la colpa sia dei social media può distrarci dal rispondere efficacemente alle vere cause dell’attuale crisi di salute mentale dei giovani”.
Scrive ancora la professoressa Odgers: “Centinaia di ricercatori, me compresa, hanno cercato il genere di evidenti effetti suggeriti da Haidt. I nostri sforzi hanno prodotto un mix di associazioni minori, confuse o del tutto negative. La maggior parte dei dati sono correlativi (e non causali NDR). Quando si trovano associazioni in un lungo periodo di tempo, queste non dicono che l’uso dei social media preceda o causi la depressione, ma che i giovani che hanno già problemi di salute mentale utilizzano tali piattaforme più spesso o in modi diversi rispetto ai loro coetanei sani”. Insomma non sono i social a creare una gioventù depressa, semplicemente chi lo è già tende ad utilizzarli di più.
Scrive ancora Odgers su Nature: “Questi non sono solo i nostri dati o la mia opinione. Diverse meta-analisi e revisioni sistematiche convergono sullo stesso messaggio. Un’analisi condotta in 72 paesi non mostra alcuna associazione coerente o misurabile tra il benessere e la diffusione dei social media a livello globale. Inoltre, i risultati dello studio Adolescent Brain Cognitive Development, il più grande studio a lungo termine sullo sviluppo del cervello degli adolescenti negli Stati Uniti, non ha trovato prove di cambiamenti drastici associati all’uso della tecnologia digitale”.
Haidt ha raccolto in un elenco ragionato gran parte delle ricerche sul tema “adolescenti, smartphone e social media” effettuate nel corso degli anni. Molte, tra quelle più allarmistiche, identificano nei cellulari e nei social gli unici responsabili del disagio mentale di una generazione, dimenticando completamente di valutare il quadro ambientale, politico e sociale. Una prospettiva piuttosto miope, come scrive ancora Nature.
“L’attuale generazione di adolescenti è cresciuta all’indomani della grande recessione del 2008. Haidt suggerisce che questa crisi economica non può essere un fattore, perché la disoccupazione è diminuita. Ma le analisi degli impatti differenziali degli shock economici hanno dimostrato che le famiglie appartenenti al 20% più povero della distribuzione del reddito continuano a subire danni. Negli Stati Uniti quasi un bambino su sei vive al di sotto della soglia di povertà e cresce in un periodo caratterizzato da una crisi da oppioidi, da sparatorie nelle scuole e da crescenti disordini dovuti alla discriminazione e alla violenza razziale e sessuale”.
Vuoi vedere che gli smartphone e i social network non sono l’unico motivo di infelicità nel mondo in cui viviamo? Anzi proprio i dispositivi tecnologici spesso si scoprono efficaci nel creare comunità che riescono a sostenerci nei momenti di difficoltà.
Secondo il Pew Research Centre la maggior parte degli adolescenti americani attribuisce ai social media il merito di aver rafforzato le proprie amicizie e fornito supporto, pur tenendo conto del lato emotivamente impegnativo di queste piattaforme.
Otto adolescenti su dieci affermano che ciò che vedono sui social media li fa sentire più connessi a quello che accade nella vita dei loro amici, mentre il 71% afferma che li fa sentire come se avessero un posto dove poter mostrare il proprio lato creativo. Il 67% afferma che queste piattaforme li fanno sentire come se avessero persone che li possono supportare nei momenti difficili. Una quota più piccola, anche se sempre di maggioranza, dice lo stesso riguardo il sentirsi più accettati. Questi sentimenti positivi sono espressi dagli adolescenti di tutti i gruppi demografici.
Queste analisi diventano ancora più importanti quando vengono applicate a gruppi specifici come la comunità LGBTQ che, come visto in precedenza dai dati del CDC americano, è uno degli insiemi più vulnerabili ai problemi mentali riscontrati negli adolescenti.
La ricerca “Social Media Use and Health and Well-being of Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, and Queer Youth: Systematic Review”, riportata anche dal New York Times, ha rivelato come i social media possono supportare la salute mentale e il benessere dei giovani LGBTQ attraverso la connessione tra simili, la gestione dell’identità e il supporto sociale.
Per coloro che crescono in famiglie o comunità inospitali, i social media possono fornire un senso di identità e appartenenza in un’età cruciale, un vantaggio che persone appartenenti alla comunità LGBTQ delle generazioni precedenti non hanno potuto avere. Il paradosso, per determinati gruppi di persone, è quello di sentirsi più sicuri online che nella vita di tutti i giorni. Su internet ci si può disconnettere o si può rimuovere il proprio profilo, mentre è molto più difficile sottrarsi al bullismo di un compagno di classe o alla violenza verbale di un membro della famiglia.
Le ricerche non sono tutte uguali
So già cosa state pensando: per ogni ricerca che dimostra come non c’è nessun nesso tra l’uso degli smartphone e dei social network e la salute mentale degli adolescenti, ne esiste un’altra che afferma il contrario.
I numeri però non sono tutti uguali e il modo in cui vengono raccolti e analizzati fa la differenza. Ma vogliamo essere più precisi approfondendo i motivi per cui, le pur numerose ricerche allarmistiche, vengono sempre confutate da altre, di maggiori serietà e qualità, come quelle citate in precedenza.
▪️ Correlazione non è causalità: chiunque studi i principi di statistica sa che solo perché due fenomeni accadono nello stesso momento non siamo autorizzati a pensare che uno sia causa dell’altro. Tutti gli studi riportati da Haidt nel suo libro si fermano sempre ad un rapporto di correlazione, senza riuscire a provare la causalità tra arrivo in commercio degli smartphone e aumento del disagio psichico degli adolescenti.
Peggio ancora, alcuni tra i principali sostenitori di questa teoria non sono neanche d’accordo sul momento in cui questa epidemia è iniziata: c’è chi ne stabilisce l’inizio al 2007 con l’arrivo dell’iPhone, altri al 2010 quando è iniziata la cosiddetta “Era dello smartphone”, come se in quegli anni non fosse successo niente altro di rilevante capace di influenzare il nostro umore.
Dylan Selterman, professore associato presso la Johns Hopkins University nel Dipartimento di psicologia e scienze del cervello, spiega il problema e scrive: “Anche se esiste un legame tra l’uso dei social media e la salute mentale, non è chiaro quale dei due viene prima. È una specie di cliché dire che “la correlazione non equivale alla causalità”. Ma cosa intendiamo veramente? Qualcuno pensa davvero che la depressione causi un aumento dell’uso dei social media? Beh, potrebbe non essere un'idea così folle. Alcuni psicologi suggeriscono che gli adolescenti usano i social media per far fronte alle emozioni negative. Lo abbiamo visto durante il lockdown dovuto al COVID, quando gli adolescenti erano fisicamente isolati ma desideravano ancora una connessione sociale. Alcuni studi longitudinali mostrano che quando la depressione degli adolescenti peggiora, ciò implica un maggiore utilizzo dei social media, ma non il contrario”.
▪️ Non conta la quantità, ma la qualità: nel suo libro (che non ho letto) e nel suo blog (che invece ho letto) Haidt difende la propria teoria facendosi scudo con la quantità di studi che lo supportano. Ad analizzare questi studi con più attenzione ci ha pensato il collaboratore di Bloomberg, e professore di statistica dell’Università di New York e della California, Aaron Brown, scoprendo che quasi nessuno di questi merita di essere tenuto da conto.
Scrive Brown: “Haidt non sembra aver letto con occhio sufficientemente critico i 301 studi che compongono la sua meta-analisi informale. Alcuni hanno errori clamorosi. Uno studio da lui citato, ad esempio, ha chiaramente sbagliato la codifica dei dati [...] Ciò che Haidt ha fatto è simile a ciò che è accaduto nel settore finanziario nel periodo prima della crisi del 2008, ovvero si sono presi un mucchio di asset ipotecari di così cattiva qualità da non essere valutabili e li si è impacchettati in qualcosa che Standard & Poor's e Moody's erano disposti valutare come AAA, cosa che avrebbe potuto far saltare in aria Wall Street. Uno studio scadente è come un cattivo mutuo ipotecario. Metterli assieme, partendo dal presupposto che in qualche modo i loro difetti si annulleranno a vicenda, dimostra una logica imperfetta, ed è una ricetta per trarre conclusioni incredibilmente sbagliate”.
La risposta alle critiche
La risposta di Haidt a queste osservazioni non è particolarmente efficace. In un post del suo blog si limita a scrivere che trova eccessive le critiche e che, davanti a tanti dati a suo favore, dovremmo accontentarci di essere prudenti. Ammette di non poter provare la causalità tra aumento della depressione e utilizzo di smartphone e social network ma che all’aumentare i casi di correlazione dovremmo fidarci della sua abilità di “profetizzare”(?) che ciò che accadrà in futuro, qualità che ha già esercitato su altri argomenti in passato.
Invece di seguire la logica per cui gli smartphone sono innocenti fino a prova contraria, secondo Haidt, dovremmo giudicarli colpevoli, anche in assenza di prove, secondo il principio delle cause civili americane in cui ci si può accontentare di una “preponderanza di indizi” contro di loro.
La verità è che gli studi attualmente esistenti non sono sufficienti a darci un corso d’opera chiaro e definitivo.
Gli interventi che propone Haidt nel suo libro (vietare gli smartphone ai ragazzi fino alle scuole superiori, vietare l’uso di qualunque tipo di telefono nelle scuole elementari e medie, aumentare l’età minima per accedere a determinati servizi digitali dagli attuali 13 anni ai 16 anni) potrebbero essere un punto di partenza per una discussione sull’utilizzo di questi strumenti tecnologici.
Ad essere sbagliato è il tono allarmistico con cui queste informazioni, soprattutto quelle errate, sono comunicate al pubblico, dando l’illusione di aver scientificamente dimostrato come gli smartphone e i social network siano i responsabili di ogni problema della nostra società.
I genitori che leggono questo tipo di testi possono pensare che intervenire nell’utilizzo dei cellulari da parte dei loro figli sia l’unico modo per prevenire ogni forma di disagio psichico. In questa maniera rischiano di ignorare altre, e più profonde, cause di problemi, come il rapporto con la famiglia, l’uso di sostanze o lo stress scolastico.
Dalla censura all’educazione
La storia ci insegna che se c’è un modo per peggiorare le cose è quello di imporre una forma di proibizionismo, come fa chi invoca un bando degli smartphone o dei social network in determinati luoghi o per determinate fasce di età. Lo abbiamo sperimentato con l’alcol e le droghe ma non riusciamo a resistere alla tentazione di ripetere l’errore con i dispositivi tecnologici.
Quella che andrebbe insegnata è piuttosto una forma di educazione all’utilizzo del mezzo secondo misura, come facciamo con altre sostanze ambigue: zucchero in primis. Mangiare una fetta di torta va bene, svaligiare la pasticceria molto meno.
Oltre i dati, le ricerche e le statistiche la crisi più grave prodotta dagli smartphone è la frattura tra chi percepisce la propria realtà divisa tra una dimensione online e una offline e chi invece ha capito che viviamo in uno spazio che mette assieme entrambe le superfici.
È difficile ignorare la sensazione che, alla base di tante discussioni qualunquiste, come delle teorie nel libro di Haidt, ci sia soprattutto la reazione impaurita di una generazione di fronte a un mondo che non riesce più a comprendere e, di conseguenza, il desiderio di tornare indietro a quando le cose erano più semplici, le comunicazioni si muovevano più lentamente e si poteva giocare in strada senza bisogno della supervisione degli adulti.
Oggi, però, la vita reale e quella virtuale non sono più in contrapposizione. Viviamo una "Onlife," come la definisce il filosofo Luciano Floridi, in cui ci muoviamo continuamente tra il mondo digitale e quello fisico, senza sentirci alienati.
Steve Jobs parlava dei computer come di una “bicicletta per la mente” e gli smartphone sono una bici pieghevole che riusciamo a infilare nella tasca dei pantaloni. Anche se decidessimo di chiudere i cellulari dei nostri figli in un armadietto, gran parte della loro vita, legami e passioni continuerebbe ad esistere dentro quei dispositivi. Ed è giusto così.
Bibliografia
Per la stesura di questo articolo ho consultato molti altri articoli e ricerche, oltre quelle già linkate e segnalate nel testo. Riporto di seguito la lista completa per chi volesse approfondire ulteriormente l’argomento.
Studi
Age that kids acquire mobile phones not linked to well-being, says Stanford Medicine study. “Stanford Medicine researchers did not find a connection between the age children acquired their first cell phone and their sleep patterns, depression symptoms or grades”.
Estimating the association between Facebook adoption and well-being in 72 countries. “We describe associations linking 72 countries' Facebook adoption to the well-being of 946 798 individuals from 2008 to 2019. We found no evidence suggesting that the global penetration of social media is associated with widespread psychological harm”.
Links between screen use and depressive symptoms in adolescents over 16 years: Is there evidence for increased harm?. “To be sure, there is a growing scientific literature on the links between social media use and adolescent mental health. But as yet it is not possible to draw any firm conclusions from it, in part because very few studies have the characteristics listed above. Of the better studies that have found a negative correlation between social media use and adolescent mental health, most have found extremely small effects — so small as to be trivial and dwarfed by other contributors to adolescent mental state”.
The Welfare Effects of Social Media. “It’s debatable whether even this result would survive the researchers corrected for all the other statistical tests they ran. Not only that, but they also ran a second model, controlling for the overall amount of time people used Facebook, and this found even fewer results than the first one. Third, as well as the well-being questionnaire at the end of the study, the participants got daily text messages asking them how happy they were, among other questions. Oddly, these showed absolutely no effect of being off Facebook – and not even the slightest hint of a trend in that direction”.
Social media use and its impact on adolescent mental health: An umbrella review of the evidence. “Social media use and its impact on adolescent mental health: An umbrella review of the evidence. Literature reviews on how social media use affects adolescent mental health have accumulated at an unprecedented rate of late. Yet, a higher-level integration of the evidence is still lacking”.
Teenagers, screens and social media: a narrative review of reviews and key studies. “When examining the reviews, it becomes evident that the research field is dominated by cross-sectional work that is generally of a low quality standard”.
No evidence screen time is negative for children’s cognitive development and well-being: Oxford Study. “In a study of nearly 12,000 children in the United States, no evidence was found to show that screen time impacted their brain function or well-being”.
Articoli essenziali
Everyone Says Social Media Is Bad for Teens. Proving It Is Another Thing. (NYT)
Don’t panic about social media harming your child’s mental health – the evidence is weak (iNews)
It’s Easy to Blame Mental Health Issues on Tech. But Is It Fair? (Wired US)
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Segnalibri
Da qualche settimana sono entrato a far parte del Digital Advisory Board della Fondazione Telethon. Questo è il video della nuova campagna dedicata al 5X1000.
Taylor Swift, spiegata bene.
No, non è vero che una tribù dell’Amazzonia è diventata dipendente dal sesso.
Ancora brutte notizie per il mercato dei podcast audio.
Da ragazzo la compravo ogni mese e poi, per un breve periodo, ho avuto la fortuna di collaborare. Oggi Rumore continua ad uscire in edicola e resistere al mercato.
Ogni tanto i post che diventano virali su Substack sono davvero interessanti.
Ammetto che avevo pure io un pregiudizio su questo tema (pur amando la tecnologia, visto che ne ho fatto il mio lavoro) e sei riuscito a farmi cambiare idea. Complimenti 😊!
Ottimo lavoro davvero!