Internet ci aveva promesso la libertà assoluta, un universo di contenuti dove chiunque può scegliere ciò che preferisce. Ma le cose non sono andate come previsto.
Da un lato, la frammentazione dei consumi produce celebrità note solo in determinate bolle online, dall'altro, si verifica l'effetto contrario: l'omologazione. Di fronte a infinite scelte, tendiamo a guardare, leggere e ascoltare tutti le stesse cose.
Perché? La colpa è dei feedback loop che riceviamo dagli altri: meccanismi su cui si basano le reti e che ci influenzano come consumatori e come produttori di contenuti e che decidono il successo o il fallimento di un progetto. Ma come funzionano esattamente?
Ho provato ad andare a fondo del loro funzionamento per capire come utilizzarli a nostro favore. Ecco cosa troverete in questo post:
Come sfruttare il passaparola a proprio vantaggio
Capire l'importanza delle proprietà intellettuali
Quali tipologie di contenuti è inutile produrre
Cosa succede con l'arrivo dell'intelligenza artificiale
Benvenuti nell’era della monocultura.
Come funziona l’attenzione
Internet contemporaneamente frammenta e concentra la nostra attenzione, ma se la causa della frammentazione è ovvia (più contenuti = meno tempo per ciascuno), quella della concentrazione è meno scontata.
Tutti ci siamo arrabbiati per l’ultima, deludente, stagione di “Game of Thrones”, tutti siamo andati al cinema a vedere “Barbie” e, apparentemente, tutti ascoltiamo Taylor Swift e Ariana Grande, tanto da permettere a queste popstar di battere record discografici vecchi di decenni stabiliti, addirittura, dai Beatles.
Ogni rete, per sua natura, alimenta i feedback loop (mi rifiuto di tradurre in italiano con “Ciclo di retroazione”) positivi e negativi che riceviamo dalle altre persone e, quindi, crea successi sempre più grandi. Immaginate una palla di neve che non smette di crescere mano a mano che rotola verso valle.
Più entriamo in un labirinto di scelte infinite e più, per orientarci, abbiamo bisogno delle indicazioni che ci forniscono gli altri. Questo accade per due ragioni: il costo di ricerca e il costo di opportunità.
Il costo di ricerca equivale al tempo, la fatica e il denaro che impieghiamo per trovare qualcosa che ci interessa, ancora prima di poterlo consumare.
Guardare TikTok ha un costo di ricerca molto basso perché in poco tempo possiamo vedere moltissimi contenuti e capire se c’è qualcosa che ci piace.
Guardare Netflix ha un costo di ricerca più alto, passare la serata a scegliere un film è un’esperienza che abbiamo fatto tutti, e un problema che le piattaforme provano da tempo a risolvere.
Il costo di opportunità indica i benefici, o semplicemente il piacere, che abbiamo consumando un contenuto piuttosto che un altro.
Il costo di opportunità di ascoltare i primi secondi di una canzone su Spotify, per decidere se ci piace, è basso.
Invece organizzarsi con gli amici per andare a vedere un film al cinema ha un costo alto: serve spirito d’iniziativa e qualche decina di messaggi WhatsApp per trovare un giorno che vada bene a tutti.
Soli o male accompagnati
Quando il costo di ricerca e quello di opportunità sono bassi non abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri per fare la nostra scelta: c’è poco da perdere e possiamo assumerci il rischio di sbagliare. In questi casi i feedback loop non influenzano molto la nostra scelta.
La situazione cambia quando i costi di ricerca e opportunità si alzano: non possiamo scrollare tutte le serie di Amazon Prime Video per decidere cosa vedere, così come non possiamo ascoltare tutti i podcast esistenti per scegliere quello da ascoltare prima di salire sul treno.
Quando si tratta di formati impegnativi dal punto di vista del tempo e dell’attenzione, per scegliere, abbiamo bisogno di farci aiutare dalle scelte dei nostri simili. In questi casi i feedback loop sono indispensabili e quando si accumulano tra loro creano quella che si definisce una cascata informativa (quando si valutano le scelte degli altri come segnale di qualità) o una cascata reputazionale (quando ci si conforma alla scelta fatta da un gruppo).
Ecco perché in ambito digitale si dice che “chi vince prende tutto”: quando l’attenzione si muove lo fa con un effetto valanga, che avvantaggia chi è in una posizione dominante.
Si spiega così anche il successo inaspettato di “C’è ancora domani”. Il film di Paola Cortellesi è diventato un caso nazionale incassando quasi 40 milioni di euro grazie al passaparola del pubblico, a cui si è aggiunto, in un secondo tempo, il racconto mediatico di ciò che stava avvenendo.
Più persone guardano, ascoltano o utilizzano un servizio e più sarà probabile che altri ne vengano attratti. Non solo: per alcuni prodotti e contenuti subentra un effetto network, per cui all’aumentare degli utenti, aumenta anche il valore per tutti i partecipanti.
Il caso più famoso è quello del telefono: più persone lo possiedono e più è utile a tutti quelli connessi alla rete. Anche una serie tv o un videogioco però possono avere il loro effetto network: più persone lo conoscono o ne fanno uso e più sarà divertente per tutti quelli che fanno parte della community dei fan.
Feedback loop, cascate reputazionali e effetto network sono meccanismi che fanno parte da sempre della società moderna ma, con l’arrivo di Internet che mette in collegamento tutte le persone del pianeta, hanno subito un'accelerazione inimmaginabile.
Dove ci siamo già visti?
Se chi vince prende tutto allora chi è nuovo e sconosciuto è quasi sempre destinato a rimanerlo. Ecco perché, da qualche anno a questa parte, i principali editori mondiali sono ossessionati dal basare qualunque produzione su proprietà intellettuali già note.
Conoscere già un prodotto, almeno di nome, abbassa drasticamente il costo di ricerca e permette alle persone di scegliere in autonomia, senza doversi basare sui segnali della propria rete.
Non solo la Disney, con lo sfruttamento di universi cinematografici come quello Marvel o di Guerre Stellari, ma anche un bastione dell’originalità come HBO ha recentemente prodotto spinoff (di “Game of Thrones"), sequel (di “Sex and the City”) ed è in cantiere anche un prequel del film “Dune”.
La fine della cosiddetta Peak TV e la crisi degli editori non miglioreranno la situazione: nel 2023 il numero di serie tv americane prodotte è diminuito del 14%, la prima flessione in questo mercato da diversi anni.
Mettetevi al loro posto: avendo un budget milionario (da far fruttare) scommettereste tutto su un esordiente sconosciuto o su un cavallo che ha già dimostrato di poter vincere?
La guerra dell’attenzione
Questi meccanismi si estremizzano con l’aumento dei costi economici sostenuti dai produttori di contenuti e, di conseguenza, quelli cognitivi del pubblico che li fruisce.
Quando Amazon Prime Video spende 60 milioni di dollari per un singolo episodio della serie “Il signore degli Anelli: Gli anelli del potere” oppure Netflix 30 milioni di dollari per un episodio di “Stranger Things”, non possono permettersi di sbagliare.
Più sono alti i costi di ricerca e opportunità, come nel caso di serie lunghe ed elaborate, e più noi consumatori baseremo le nostre scelte sui segnali che vengono dalla nostra rete sociale, on e offline.
Ecco spiegate le enormi campagne marketing che accompagnano il lancio delle grandi produzioni video: da Piazza Duomo occupata per la promozione di “Stranger Things” alle invenzioni che hanno anticipato l’uscita in sala di “Barbie”.
Ogni mezzo è valido pur di riuscire ad essere la notizia del giorno di cui tutti parleranno, mettendo in moto il meccanismo dei feedback loop indispensabili al successo dei prodotti più ambiziosi.
Gli algoritmi, che governano le piattaforme su cui consumiamo i nostri contenuti, si basano sugli stessi segnali social: più qualcosa funziona e più verrà distribuito ad un pubblico più ampio.
La somma di feedback loop sociali e algoritmici, crea una distribuzione ultra-polarizzata in cui pochissimi elementi raggiungono la testa della distribuzione, accumulando un'enorme quantità di attenzione (Taylor Swift, Bad Bunny, Oppenheimer, The Bear etc etc), mentre il resto dell’infinita coda lunga si divide le briciole di una frammentazione granulare.
Cosa succede in pratica
Alcuni mercati sono ancora più sensibili di altri a questa estremizzazione tra popolarità e fallimento.
Il cinema ha altissimi costi di opportunità: pagare una babysitter per andare a vedere “Poor Things” è un gesto quasi eroico. Questo si riflette sugli incassi al botteghino: negli ultimi anni sempre meno film incassano sempre più soldi, ingrossando la testa della coda di distribuzione.
Con le serie Netflix succede qualcosa di simile: la curva diventa più ripida nel corso degli anni perché il numero di contenuti capaci di fare la differenza sono sempre meno, ma sempre più importanti nell’economia della piattaforma.
Per i videogiochi, se possibile, è addirittura peggio. Se per vedere tutto ”Game of Thrones” servono circa 70 ore (un investimento di tempo notevole) il giocatore medio di "Fortnite" spende circa 40 ore ogni settimana in rete con i propri amici, un costo di opportunità enorme.
L’impegno richiesto per godere di contenuti del genere, uniti all’effetto network di scegliere un gioco piuttosto che un altro (più amici giocano assieme e più è divertente per tutti), rendono quello dei videogiochi uno dei settori con la differenza più estrema tra i titoli di successo alla testa della distribuzione e quelli sconosciuti nella coda lunga.
Il nuovo GTA 6, in uscita nel 2025, ha un budget di produzione di circa 2 miliardi di dollari (!) una somma che fa impallidire i blockbuster di Hollywood. Se per Netflix e Amazon fare flop è doloroso ma ancora concepibile, per una software house come Rockstar Games la possibilità di non essere l’evento dell’anno è inaccettabile.
La sconfitta sta nel mezzo
A pagare lo scotto di questa polarizzazione tra una coda infinita, ma inutile, e una testa sempre più piccola, ma determinante, è chi rimane nel mezzo.
Stampa e radio locali, reti televisive minori, film con produzioni meno importanti sono oggi in crisi profonda. Anni fa, quando la distribuzione di contenuti era ancora poco efficiente e costosa, ci si accontentava di ciò che si trovava nella propria zona geografica o disponibilità economica.
Oggi abbiamo tutti accesso a qualunque contenuto senza limiti geografici e per molti la concorrenza è diventata insostenibile. Negli USA, mentre un giornale come il New York Times prospera e si candida ad essere un punto di riferimento globale, la gran parte della stampa locale sta scomparendo.
Quello di rimanere bloccati nel mezzo non è un problema solo dei media tradizionali ma anche i content creator che operano su YouTube e TikTok. Solo i più grandi e importanti tra questi riescono ad attrarre la maggioranza dell’attenzione e dell’interesse degli inserzionisti, e dunque a produrre un reddito di cui vivere.
Da un’analisi del sito Linktree emerge come il 46% dei creator a tempo pieno guadagnano meno di 1000 dollari l’anno. Spotify ha più di 11 milioni di artisti ma solo 57,000 tra questi guadagnano più di 10,000 dollari l’anno (lo 0,5%) e meno del 0,25% dei canali YouTube riesce a monetizzare i propri contenuti.
Non esiste una classe media dei creator e probabilmente non esisterà mai.
Il futuro dello scrolling infinito
Come riportato dall’analista tecnologico Ben Thompson ci sono un paio di tendenze chiare su quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
I contenuti che consumiamo passeranno dall’essere principalmente video (come oggi) ad ambienti tridimensionali e esperienze immersive basate su tecnologia di realtà virtuale o aumentata. L’arrivo sul mercato di dispositivi come Apple Vision Pro e il Quest di Meta, sono segnali chiari in questo senso.
L’intelligenza artificiale, che fino ad oggi abbiamo usato per mettere in ordine ciò che consumiamo (dal feed di Facebook fino alle playlist di Spotify), inizierà a generare contenuti personalizzati, basati sui nostri gusti. L’indizio più evidente è stato l’annuncio di Sora, la nuova applicazione text-to-video di OpenAI, che dimostra potenzialità incredibili.
Immaginatevi seduti sul divano, mentre indossate un visore immersivo che vi mostra una serie tv costruita espressamente sulle vostre richieste. Un’immagine tanto vicina alla distopia quanto alla prossima realtà.
Da un presente in cui i meccanismi di raccomandazione, sociali e tecnologici, spingono tutti a consumare gli stessi prodotti, andiamo verso un futuro in cui ciò che vedremo e leggeremo sarà creato su misura per ciascuno di noi.
Il rischio è quello di passare da una monocultura ad un’altra: da una di massa ad una individuale.
Anche nell’era dell’intelligenza artificiale e dei contenuti infiniti, il divario tra contenuti di successo e quelli di nicchia continuerà ad essere enorme, anzi diventerà ancora più estremo.
La coda lunga della frammentazione sarà davvero infinita, e alla testa rimarranno solo una manciata di nomi e servizi così grandi da monopolizzare buona parte dell’attenzione mondiale, come mai accaduto prima nella storia dell’umanità.
Penso a popstar che vendono miliardi di dischi, videogame di una complessità inaudita, serie tv che costano più di 100 milioni di dollari a puntata e, ovviamente, il Festival di Sanremo.
P.S. questo post non sarebbe potuto esistere senza il lavoro di Doug Shapiro. Se volete approfondire l’argomento consiglio di iscrivervi alla sua newsletter.
P.P.S. se vi interessa l’argomento ne avevo scritto anche qui:
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A proposito della classe media dei creator: io invece credo proprio che esista. Immagino che quelle statistiche valutino il guadagno diretto dalle piattaforme (ads o link affiliati). Ma oggi come oggi la maggior parte dei creator campa vendendo servizi esterni, come video corsi, prodotti fisici o quant'altro. Questo è vero soprattutto per i professionisti che usano le piattaforme social per il loro personal branding. Per non parlare di tutte le collaborazioni sponsorizzate con i brand. Certo, se guardiamo solo ai guadagni che vengono dalle visualizzazioni è chiaro che siano pochi quelli che raccolgono somme pari a uno stipendio mensile: il guadagno da un singolo ad è talmente basso che per portare a casa una cifra accettabile occorrono milioni di utenti che guardano i tuoi video costantemente.
Oddio, non sono mica tanto d'accordo sul fatto che ci piacciano a tutti le stesse cose, forse è più facile trovare qualcuno a cui piacciono le nostre cose, ma il mainstream oggi è crollato, o almeno, è totalmente proteiforme e spesso ognuno ha il suo palinsesto.