A proposito della classe media dei creator: io invece credo proprio che esista. Immagino che quelle statistiche valutino il guadagno diretto dalle piattaforme (ads o link affiliati). Ma oggi come oggi la maggior parte dei creator campa vendendo servizi esterni, come video corsi, prodotti fisici o quant'altro. Questo è vero soprattutto per i professionisti che usano le piattaforme social per il loro personal branding. Per non parlare di tutte le collaborazioni sponsorizzate con i brand. Certo, se guardiamo solo ai guadagni che vengono dalle visualizzazioni è chiaro che siano pochi quelli che raccolgono somme pari a uno stipendio mensile: il guadagno da un singolo ad è talmente basso che per portare a casa una cifra accettabile occorrono milioni di utenti che guardano i tuoi video costantemente.
È un trend in evoluzione e vedremo cosa accadrà, ma dobbiamo stare attenti a non farci influenzare dal “survivorship bias”, per ogni creator che vediamo anche solo pagare l’affitto ce ne sono migliaia che girano a vuoto
Però è un po' come dire che per ogni campione che vediamo ci sono migliaia di sportivi che girano a vuoto, è abbastanza normale. Qualunque lavoro basato sul talento è rischioso, vale per qualunque professione, non solo per le nuove.
Vero, è sempre successo, quello che provo a spiegare nel pezzo è che internet (e le cose che nascono lì) aumenta questo scollamento tra poco e tanto in maniera estrema
Be', trend per modo di dire, la creator economy esiste da almeno quindici anni. Il survivorship bias si può applicare su qualunque scala, anche per altre categorie ci sono quelli che portano a casa stipendi a 5 zeri e quelli che invece a stento arrivano a fine mese. Vedi i giornalisti, che da un bel po' si devono arrabbatattare con mille attività perché ormai sono in pochi a campare esclusivamente di quella professione. Ma è anche vero che se una volta si scriveva per poche testate di riferimento (e quindi i giornalisti professionisti erano molti di meno) oggi l'evoluzione comunicativa permette più facilmente la creazione di micronicchie di riferimento e quindi audience monetizzabili (e quindi i professionisti sono di più). È la classe media a cui faccio riferimento, non esiste più l'informazione generalista di vasta scala dove pochi potevano dire la propria, ma tante piccole comunità anche molto verticalizzate dove chiunque abbia competenza e volontà di emergere ha la possibilità di affermarsi e farne un sostentamento.
Non so Giuseppe, per seguire il tuo esempio del giornalismo a livello mondiale il 10% di tutti i giornalisti usa lavora per il NYT, tantissimi altri sono disoccupati. Presto il 50% dei giornalisti lavorerà per pochissimi mega brand e quasi tutti gli altri oscilleranno tra sopravvivenza e disoccupazione
Certo, se parliamo di giornalismo tout court. Per questo, ritornando al discorso delle fonti di guadagno, mi riferivo al fatto che nel momento in cui diciamo che sono pochi i content creator che vivono della loro professione guardiamo solo ai guadagni diretti (tipo le ads sulle views) allora è vero. Ma che è una visione semplicistica del lavoro, perché un content creator può avere numerosi fonti esterne di guadagno legate alla sua opera di comunicazione che non sono tracciabili direttamente, ma che sono strettamente legate a quel lavoro e costituiscono il paniere del suo stipendio mensile.
Posso parlarti per esperienza diretta: da content creator io opero in una nicchia molto ristretta dove tra l'altro ho anche un numero bassissimo di follower. Ma il mio progetto di comunicazione mi porta guadagni in crowdfunding, collaborazioni esterne e, dulcis in fondo, mi ha portato all'attenzione di un'industria del settore che mi ha assunto per le mie competenze e il mio networking. Posso dire che campo come content creator? No. Posso dire che guadagno dalla creazione dei miei contenuti? Assolutamente sì. E come me, molti altri nella stessa situazione che a una ricerca di quel tipo saranno totalmente oscuri.
Oddio, non sono mica tanto d'accordo sul fatto che ci piacciano a tutti le stesse cose, forse è più facile trovare qualcuno a cui piacciono le nostre cose, ma il mainstream oggi è crollato, o almeno, è totalmente proteiforme e spesso ognuno ha il suo palinsesto.
Si e no. Il mainstream si è assottigliato come numero di elmenti (meno hit) ma è cresciuto come importanza di quei pochi elementi. Avengers incassa più di Independence Day, Taylor Swift vende più dei Beatles etc etc
Certo, però là c'è anche un discorso di evoluzione dei mezzi di commercializzazione. capacità di spesa, capillarità. Poi si c'è anche una maggiore velocità di ricambio di alcune hit, per non parlare della "franchisesizzazione" delle hit.
La spiegazione migliore della domanda iniziale "Perché piacciono a tutti le stesse cose?" l'ha data David Foster Wallace in Infinite Jest (che è, in sé, un contenuto ipnotico che ci sottrae a tutto il resto). Cerco la citazione precisa, ma il succo è: siamo tutti simili nei nostri gusti peggiori, tutti diversi nei nostri gusti migliori. Parlando di monocultura però non dimentichiamo l'esistenza di tantissime nicchie di enorme interesse e qualità, non liquiderei la coda lunga così velocemente.
Certo, il mio non era assolutamente un discorso di merito o di qualità ma solo economico e industriale, anche io vivo spesso nelle nicchie ma in un certo senso “faccio poco testo”
Mi sembra un ragionamento, con tutto il rispetto, distorto rispetto al reale valore del concetto di feedback loop - concetto che deriva dalla teoria della complessità e ha una portata ben più ampia e sfumata rispetto alla sua riduzione a mero meccanismo di omologazione dei gusti. Un feedback loop può generare sia rinforzo che deviazione, e non sempre porta a una monocultura. Se fosse davvero così deterministico, non esisterebbero fenomeni culturali di nicchia che riescono a emergere e ad affermarsi, come la miniserie Adolescence.
Questo tipo di produzione rappresenta un esempio di come l’esperienza umana, nelle sue sfaccettature più autentiche, riesca ancora a trovare spazio e risonanza nonostante la presenza di algoritmi e dinamiche di massa. Adolescence non si impone come risultato di un loop di consumo passivo, ma come espressione di un bisogno narrativo e di rappresentazione che risuona profondamente con il pubblico.
Seppur interessante questo post non tiene in considerazione il vero messaggio dietro quello che si vuol far credere una consumazione di massa ed una omologazione dei “gusti”. Qui si tratta di toccare le corde dell’esperienza umana ed è un invito a riflettere e, possibilmente, sviluppare un pensiero critico, senza per forza, cadere nella banalità della monocultura o del perché a “tutti piacciono le stesse cose”.
Il punto non è che tutti finiamo per guardare le stesse cose, ma che certi contenuti, grazie alla loro capacità di intercettare sensibilità ed esperienze condivise, riescono a creare spazi di connessione. Confondere questo con la pura omologazione significa perdere di vista il valore del racconto e dell’identità culturale, riducendo la complessità dell’esperienza umana a un banale automatismo algoritmico.
Ciao Luisa il discorso è complesso ma penso che ciò che dici non sia escludente rispetto a quello che scrivo. Anche secondo me questi contenuti che emergono (organicamente o attraverso makreting o entrambe) dai feedback loop sono espressione di sensibilità condivise, per questo ancora più importanti che i blockbuster del passato per certi versi. Nel descrivere il fenomeno non ne faccio una questione di merito
A proposito della classe media dei creator: io invece credo proprio che esista. Immagino che quelle statistiche valutino il guadagno diretto dalle piattaforme (ads o link affiliati). Ma oggi come oggi la maggior parte dei creator campa vendendo servizi esterni, come video corsi, prodotti fisici o quant'altro. Questo è vero soprattutto per i professionisti che usano le piattaforme social per il loro personal branding. Per non parlare di tutte le collaborazioni sponsorizzate con i brand. Certo, se guardiamo solo ai guadagni che vengono dalle visualizzazioni è chiaro che siano pochi quelli che raccolgono somme pari a uno stipendio mensile: il guadagno da un singolo ad è talmente basso che per portare a casa una cifra accettabile occorrono milioni di utenti che guardano i tuoi video costantemente.
È un trend in evoluzione e vedremo cosa accadrà, ma dobbiamo stare attenti a non farci influenzare dal “survivorship bias”, per ogni creator che vediamo anche solo pagare l’affitto ce ne sono migliaia che girano a vuoto
Però è un po' come dire che per ogni campione che vediamo ci sono migliaia di sportivi che girano a vuoto, è abbastanza normale. Qualunque lavoro basato sul talento è rischioso, vale per qualunque professione, non solo per le nuove.
Vero, è sempre successo, quello che provo a spiegare nel pezzo è che internet (e le cose che nascono lì) aumenta questo scollamento tra poco e tanto in maniera estrema
Eh, ma è proprio sull'estremo che non sono d'accordo. Ma vale la pena di ragionarci su :-)
Be', trend per modo di dire, la creator economy esiste da almeno quindici anni. Il survivorship bias si può applicare su qualunque scala, anche per altre categorie ci sono quelli che portano a casa stipendi a 5 zeri e quelli che invece a stento arrivano a fine mese. Vedi i giornalisti, che da un bel po' si devono arrabbatattare con mille attività perché ormai sono in pochi a campare esclusivamente di quella professione. Ma è anche vero che se una volta si scriveva per poche testate di riferimento (e quindi i giornalisti professionisti erano molti di meno) oggi l'evoluzione comunicativa permette più facilmente la creazione di micronicchie di riferimento e quindi audience monetizzabili (e quindi i professionisti sono di più). È la classe media a cui faccio riferimento, non esiste più l'informazione generalista di vasta scala dove pochi potevano dire la propria, ma tante piccole comunità anche molto verticalizzate dove chiunque abbia competenza e volontà di emergere ha la possibilità di affermarsi e farne un sostentamento.
Non so Giuseppe, per seguire il tuo esempio del giornalismo a livello mondiale il 10% di tutti i giornalisti usa lavora per il NYT, tantissimi altri sono disoccupati. Presto il 50% dei giornalisti lavorerà per pochissimi mega brand e quasi tutti gli altri oscilleranno tra sopravvivenza e disoccupazione
Certo, se parliamo di giornalismo tout court. Per questo, ritornando al discorso delle fonti di guadagno, mi riferivo al fatto che nel momento in cui diciamo che sono pochi i content creator che vivono della loro professione guardiamo solo ai guadagni diretti (tipo le ads sulle views) allora è vero. Ma che è una visione semplicistica del lavoro, perché un content creator può avere numerosi fonti esterne di guadagno legate alla sua opera di comunicazione che non sono tracciabili direttamente, ma che sono strettamente legate a quel lavoro e costituiscono il paniere del suo stipendio mensile.
Posso parlarti per esperienza diretta: da content creator io opero in una nicchia molto ristretta dove tra l'altro ho anche un numero bassissimo di follower. Ma il mio progetto di comunicazione mi porta guadagni in crowdfunding, collaborazioni esterne e, dulcis in fondo, mi ha portato all'attenzione di un'industria del settore che mi ha assunto per le mie competenze e il mio networking. Posso dire che campo come content creator? No. Posso dire che guadagno dalla creazione dei miei contenuti? Assolutamente sì. E come me, molti altri nella stessa situazione che a una ricerca di quel tipo saranno totalmente oscuri.
Oddio, non sono mica tanto d'accordo sul fatto che ci piacciano a tutti le stesse cose, forse è più facile trovare qualcuno a cui piacciono le nostre cose, ma il mainstream oggi è crollato, o almeno, è totalmente proteiforme e spesso ognuno ha il suo palinsesto.
Si e no. Il mainstream si è assottigliato come numero di elmenti (meno hit) ma è cresciuto come importanza di quei pochi elementi. Avengers incassa più di Independence Day, Taylor Swift vende più dei Beatles etc etc
Certo, però là c'è anche un discorso di evoluzione dei mezzi di commercializzazione. capacità di spesa, capillarità. Poi si c'è anche una maggiore velocità di ricambio di alcune hit, per non parlare della "franchisesizzazione" delle hit.
La spiegazione migliore della domanda iniziale "Perché piacciono a tutti le stesse cose?" l'ha data David Foster Wallace in Infinite Jest (che è, in sé, un contenuto ipnotico che ci sottrae a tutto il resto). Cerco la citazione precisa, ma il succo è: siamo tutti simili nei nostri gusti peggiori, tutti diversi nei nostri gusti migliori. Parlando di monocultura però non dimentichiamo l'esistenza di tantissime nicchie di enorme interesse e qualità, non liquiderei la coda lunga così velocemente.
Certo, il mio non era assolutamente un discorso di merito o di qualità ma solo economico e industriale, anche io vivo spesso nelle nicchie ma in un certo senso “faccio poco testo”
Beh, insomma ciascuno di noi, anche se fa poco testo, nel secolo scorso non avrebbe avuto nessuna chance o quasi :-)
E tutti insieme, nella coda lunga, siamo molti di più di trent'anni fa, è per questo che per me la monocultura era prima, non adesso.
Mi sembra un ragionamento, con tutto il rispetto, distorto rispetto al reale valore del concetto di feedback loop - concetto che deriva dalla teoria della complessità e ha una portata ben più ampia e sfumata rispetto alla sua riduzione a mero meccanismo di omologazione dei gusti. Un feedback loop può generare sia rinforzo che deviazione, e non sempre porta a una monocultura. Se fosse davvero così deterministico, non esisterebbero fenomeni culturali di nicchia che riescono a emergere e ad affermarsi, come la miniserie Adolescence.
Questo tipo di produzione rappresenta un esempio di come l’esperienza umana, nelle sue sfaccettature più autentiche, riesca ancora a trovare spazio e risonanza nonostante la presenza di algoritmi e dinamiche di massa. Adolescence non si impone come risultato di un loop di consumo passivo, ma come espressione di un bisogno narrativo e di rappresentazione che risuona profondamente con il pubblico.
Seppur interessante questo post non tiene in considerazione il vero messaggio dietro quello che si vuol far credere una consumazione di massa ed una omologazione dei “gusti”. Qui si tratta di toccare le corde dell’esperienza umana ed è un invito a riflettere e, possibilmente, sviluppare un pensiero critico, senza per forza, cadere nella banalità della monocultura o del perché a “tutti piacciono le stesse cose”.
Il punto non è che tutti finiamo per guardare le stesse cose, ma che certi contenuti, grazie alla loro capacità di intercettare sensibilità ed esperienze condivise, riescono a creare spazi di connessione. Confondere questo con la pura omologazione significa perdere di vista il valore del racconto e dell’identità culturale, riducendo la complessità dell’esperienza umana a un banale automatismo algoritmico.
Ciao Luisa il discorso è complesso ma penso che ciò che dici non sia escludente rispetto a quello che scrivo. Anche secondo me questi contenuti che emergono (organicamente o attraverso makreting o entrambe) dai feedback loop sono espressione di sensibilità condivise, per questo ancora più importanti che i blockbuster del passato per certi versi. Nel descrivere il fenomeno non ne faccio una questione di merito