La nuova era dei podcast
L’audio si è trasformato in video, e gli autori sono diventati creator
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È passato più di un anno dall’ultima volta che ho scritto di podcast e da allora sono cambiate molte cose.
In quel post parlavo del podcast audio come di un formato in difficoltà: da una parte i primi segni di crisi del suo modello di business e dall’altra il dilagare del video che invade qualunque tipo di comunicazione digitale.
Molte delle previsioni che avevo fatto si sono avverate, e i podcast, per come li conoscevamo, oggi quasi non esistono più.
Proviamo a capire cos’è successo e scoprire qual è il futuro di questo formato.
I podcast sono diventati video
Secondo una ricerca della società Edison Research, e rilanciata dal New York Times, 16 su 30 dei top podcast del 2023 sono in formato video. Due anni fa erano solo 7.
Questa mutazione da audio a video ha cambiato anche le abitudini di consumo degli utenti e ha dato la possibilità a YouTube di prendere il sopravvento sulle altre piattaforme tradizionalmente dedicate ai podcast.
YouTube, infatti, oggi è la piattaforma più utilizzata per consumare podcast (31%) superando le classiche Spotify (21%) e Apple Podcasts (12%).
I motivi di questo sorpasso sono diversi:
Guardando in faccia l’ospite di un’intervista possiamo capire meglio cosa prova mentre risponde a una domanda scomoda.
Il video facilita la discoverability: YouTube, con il suo algoritmo e il sistema di video correlati, funziona alla grande.
Il video garantisce un costo di ricerca minore dell’audio. Per capire se un podcast video ci piace abbiamo bisogno di poco tempo, per valutare un contenuto audio dobbiamo ascoltarlo più a lungo, al punto che spesso rinunciamo ancora prima di iniziare.
Spotify cambia rotta
La strategia di Spotify rispetto ai podcast negli ultimi mesi è cambiata drasticamente.
La piattaforma audio ha tagliato gran parte delle produzioni audio che finanziava e ha iniziato a puntare con più decisione sui contenuti video. Un cambio di rotta così improvviso da aver praticamente ucciso il mercato sudamericano dei podcast.
Spotify dichiara di avere in catalogo ben 250,000 video podcast, contro i 100,000 del 2023, gran parte dei quali sono creati da singoli autori. Dopo aver ridotto gli investimenti nella produzione di contenuti, ora Spotify punta sull’iniziativa dei singoli creator che possono caricare in modo indipendente i loro video podcast.
Più di 170 milioni di utenti nel mondo guardano podcast video su Spotify e il numero di utenti attivi mensilmente su questo tipo di contenuti è cresciuto del 40% anno su anno, un aumento maggiore di quello misurato nello stesso periodo su contenuti esclusivamente audio.
Maya Prohovnik, vice presidente dei prodotti podcast di Spotify, ha dichiarato: “Il video sta diventando centrale nell’esperienza complessiva di Spotify. Con il numero di podcaster che pubblicano video sulla nostra piattaforma in crescita di quasi il 70% nell'ultimo anno, è evidente che i podcast video stanno stimolando gli utenti, e l'interesse per i contenuti video è aumentato enormemente in tutte le nostre principali categorie di contenuti su Spotify”.
Come rivela Bloomberg, se l’azienda ha smesso di parlare con le case di produzione, ha invece iniziato a corteggiare i creator di YouTube per convincerli, pagandoli, a caricare i loro video anche su Spotify. "Siamo pronti a entrare nel campo della pubblicità digitale e a competere per budget che vanno oltre l'audio," ha detto Ann Piper, responsabile delle vendite pubblicitarie per il Nord America, ad Adweek. "Ora che viene creato più video sulla piattaforma, vogliamo connettere i brand con gli utenti mentre guardano lo schermo".
Come ulteriore segno di una sua progressiva Youtubizzazione, Spotify ha deciso di integrare la possibilità di inserire commenti sotto i podcast, trasformando la piattaforma in un ibrido fatto di contenuti audio, video e connessioni social.
Cosa rimane dei podcast?
Molti articoli nella stampa internazionale raccontano l’altro lato di questo trionfo dei video, cioè la profonda crisi dei podcast audio.
Intorno all’audio girano molti meno soldi rispetto al video e il divario è destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Nel 2024 l’intero comparto della pubblicità audio in America vale 17,5 miliardi di dollari, dato che comprende sia le radio tradizionali che la parte digitale (che è solo il 40% del totale).
Sempre nel 2024, e sempre in America, la pubblicità sul video, in questo caso però esclusivamente digitale, vale più di 62 miliardi di dollari, con una crescita del 16% rispetto l’anno precedente.
Come nel paradosso della nave di Teseo: se cambiano tutte le parti di un format, possiamo continuare a chiamarlo con lo stesso nome?
Il termine podcast, sin dagli inizi, più che il contenuto, descrive un metodo di distribuzione. I podcast erano legati ad un feed RSS, un file che informava i client della presenza di una nuova puntata, e invitata a scaricarla.
I podcast di oggi però, soprattutto quelli video, sono ospitati e distribuiti su piattaforme social che gestiscono i contenuti senza bisogno di feed RSS, né di caricare puntate su spazi terzi.
Sparita la connotazione audio e pure il meccanismo tecnologico da cui hanno avuto origine, le video interviste che guardiamo su YouTube non hanno nulla dei podcast di una volta, tanto che forse dovremmo smettere di chiamarli podcast. Sono semplicemente video, che siano ospitati su YouTube, Spotify o Substack poco importa.
In questo scenario i contenuti audio sono sotto assedio e, anche se il numero dei podcast continua a crescere, per questi è sempre più difficile vincere la guerra dell’attenzione contro l’invasione dei video.
Due delle principali società internazionali che si occupano di podcasting, Acast e Audioboom, hanno entrambe dichiarato ascolti e conti in difficoltà. La colpa sarebbe dell’aggiornamento di iOS 17, che non scarica più automaticamente le nuove puntate su Apple Podcasts, e che ora devono essere richieste esplicitamente dagli utenti.
Un report della società Podscribe ha calcolato che, tra i primi 500 podcast presenti nella piattaforma, il numero dei download è diminuito addirittura del 50% in un anno, segno che molti dei dati osservati in passato erano drogati.
Un futuro squilibrato
Nel mondo dei podcast audio, oltre ad una crisi di numeri, si osserva anche una distribuzione sempre più sbilanciata a favore di un ristretto numero di superstar.
Come racconta il Washington Post, in America si contano più di 450,000 show diversi, ma i primi 25 della classifica raccolgono, da soli, più della metà degli ascoltatori totali.
Questi top podcast poi sono quasi tutti anche in formato video, basti pensare a show come quello di Joe Rogan, recentemente uscito dall’esclusiva con Spotify, o Call Her Daddy della podcaster Alex Cooper che ha chiuso un accordo con l’editore Sirius XM per più di 100 milioni di dollari.
Anche Pablo Trincia, che con la serie Veleno ha contribuito a lanciare la podcast-mania in Italia, rispondendo alla domanda di un follower che gli chiede un’opinione sul futuro del formato, prevede un grande divario tra una manciata di show di alto livello, che riusciranno a sopravvivere, e quasi tutti gli altri, destinati all’oblio.
Per i podcast valgono le solite regole della creator economy per cui “chi vince prende tutto” e, se le grandi piattaforme non pagano più in anticipo, la necessità è quella di diversificare i guadagni attraverso eventi dal vivo, merchandise, accordi di sponsorship.
Il cerino più corto resta nelle mani di chi si è concentrato esclusivamente sul formato audio e ora si trova a dover cambiare le proprie logiche produttive ed editoriali. Una cosa né semplice né scontata: produrre audio e produrre video sono mestieri con competenze e budget molto diversi.
L’audio ha l’obiettivo di sviluppare una narrazione in grado di immergerci in un ambiente, anche attraverso l’uso del sound design. Il video invece ha bisogno di mostrare, a volte in maniera un po’ pornografica, azioni, volti e avvenimenti capaci di catturare la nostra attenzione.
Tanto con poco
In conclusione i macro-trend del podcasting che stiamo osservando sono:
Un cambio di linguaggio: da audio a video, con conseguente spostamento delle piattaforme di consumo, da Spotify a YouTube.
Nuove logiche produttive e di monetizzazione: non più una commissione da parte di editori e piattaforme (soprattutto Spotify), ma un’iniziativa dal basso dei singoli creator che provano a monetizzare il contenuto in maniere differenti.
All’aumentare dell’impegno necessario per consumare un contenuto aumenta anche la polarizzazione: una piccola porzione di superstar VS una coda lunga di prodotti di nicchia.
Altri media hanno affrontato una mutazione simile per sopravvivere. La radio, anche italiana, negli ultimi anni è diventata sempre più visual: gli speaker tradizionali sono stati sostituiti da volti della televisione e, negli studi delle dirette come nelle serate dal vivo, non mancano le telecamere.
L’obiettivo è quello di massimizzare l’efficacia di un contenuto, in modo da poterlo distribuire e vendere su più piattaforme contemporaneamente: prima in radio, ma poi anche nei canali televisivi tematici, fino allo streaming online.
In tempi di crisi, il principio è fare molto con poco. Ancora una volta, per descrivere la produzione di contenuti, torna la metafora del maiale: nulla viene sprecato.
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Riferito ai podcast che "mutano" in video: che tri-stez-za. Stare davanti a un video e non ascoltare semplicemente un audio induce alla passività: devi stare per forza fermo a guardare lo schermo. Con l'aggravante, per quanto mi riguarda, che youtube non si lascia riprodurre in background mentre fai ricerche o altro, a meno che non attivi la funzione premium. Per mebè una tristezza infinita. Sia da autore che da fruitore di questi prodotti.
non è solo questione di tendenza.. ma anche di connessione e abbonamenti. Col 5GB e con piani di dati ampi si può scaricare di tutto. Ma non tutti i paesi sono mondi. In svizzera in media hanno piani da 5-10gb e dubito che li scarichino i podcast corposi.. oltre alla analisi della tendemza bisogna inquadrare amche l'analisi del mondo e delle decadenze dei paesi.
Saluti