I podcast non ce la possono fare
Perché i contenuti video sono destinati a mangiare quelli audio
La radio è stata la mia prima passione e quando ho iniziato a creare contenuti su internet si trattava di contenuti audio. Nei primi anni 2000 conducevo un programma musicale in streaming che andava in diretta online una volta a settimana il mercoledì sera, la registrazione rimaneva disponibile on demand nei giorni successivi.
Il termine podcast nasce alla fine del 2000 dall’unione delle parole broadcast e iPod per dare un nome ad una nuova tecnologia creata per distribuire contenuti audio attraverso internet in modo più semplice e veloce. Quando nel 2005 Apple annunciò che avrebbe integrato i podcast dentro iTunes, facendoli conoscere al grande pubblico, pensai che non c’era motivo per non provarci. Bastava agganciare un feed RSS agli audio che avevo prodotto e scoprire se così sarebbero stati scaricati da qualche persona in più.
Come accade sempre al lancio di una nuova iniziativa di Apple anche in questo caso ci fu grande eccitazione, tanto che Repubblica dedicò un intero paginone all’evento. A fianco dell’articolo principale c’era anche una classifica dei podcast più scaricati su iTunes Italia nei primi giorni. Tra le prime posizioni, dietro i programmi di Radio Deejay e Radio2, compariva anche la mia trasmissione, che al tempo registravo in pigiama dalla cameretta di Macerata.
Ricordo le telefonate e gli sms di amici e conoscenti con i vari “Ce l’hai fatta” e “Ora sei famoso”. Ovviamente non si trattava di vero successo, semplicemente eravamo talmente pochi ad essere disponibili tra i podcast di iTunes che anche il mio sfigatissimo programma aveva un posto nella classifica nazionale.
Sin dall’inizio i podcast hanno mostrato un grande squilibrio tra la notorietà mediatica del format e il numero di utenti che li consumano effettivamente.
Il ritorno e la crisi
Avanti veloce al 2023. Anche se si tratta di una tecnologia vecchia di 20 anni i podcast sono di nuovo popolari, ma sembrano già non navigare in buone acque.
Negli scorsi mesi l’elenco di chiusure e licenziamenti nell’industria si è fatto piuttosto lungo. Ultimo e particolarmente importante è il taglio di più di 200 posti di lavoro da parte di Spotify, uno dei maggiori player del settore a livello mondiale, che ha accorpato due degli studi di produzione podcast recentemente acquisiti: Parcast e Gilmlet, cancellando così 10 nuove produzioni in programma.
Anche The Daily, il podcast quotidiano del New York Times, ha faticato a raccogliere pubblicità e NPR, la National Public Radio americana, ha licenziato il 10% del suo staff e eliminato molti podcast che stava producendo.
Stiamo parlando dell’America ma come spesso succede il mercato USA è il canarino nella miniera per ciò che accadrà in Italia nel giro di qualche mese. Non a caso anche da noi si inizia a vedere qualche crepa nel mondo dei podcast.
La giornalista Guia Soncini ne ha parlato col suo solito tono polemico su Linkiesta lamentando una scarsa trasparenza di dati. Le ha risposto Pablo Trincia che, oltre ad essere uno degli autori di podcast più famosi d’Italia, fa anche parte di Chora Media, forse la più autorevole casa di produzione del settore nel nostro Paese.
Come 20 anni fa anche questa volta si parla tanto di podcast ma non si capisce bene quante persone li ascoltino davvero.
L’elemento che manca al dibattito è quello numerico: c’è poca trasparenza riguardo il consumo dei podcast. La giornalista Andrea de Cesco, che da tempo approfondisce l’argomento, ricorda come anche nel resto del mondo l’1% dei podcast genera il 99% dei download. Si tratta di una distribuzione che segue la legge di potenza tipica del mondo online dove l’attenzione del pubblico si concentra su un numero ristretto di prodotti di successo (“Winner take it all”) a dispetto della cosiddetta coda lunga.
Dall’altra Giuseppe Schiavone dell’agenzia We Are Social racconta come la percentuale di italiani che ascolta podcast sia cresciuta, arrivando a 14,9 milioni di ascoltatori contro i 13 milioni del 2021. All’interno di questa cifra diminuiscono però in proporzione le persone che ascoltano podcast branded, cioè prodotti da aziende a fini pubblicitari, il cui numero è sceso dal 74% al 61%.
Questo nonostante un esplosione di contenuti dato che produrre format brandizzati è uno dei pochi modelli di business possibili per il mercato dei podcast che non ha ancora una massa critica di ascoltatori in grado di sostenere un vero mercato pubblicitario.
Anche se l’ascolto dei podcast nel suo complesso è in lieve crescita, il medium fatica a diventare popolare: ci sono poche hit e molto concentrate, di conseguenza gli investimenti pubblicitari procedono a rilento, sia nelle inserzioni che nei branded content.
Spotify ha provato a diventare per i podcast quello che YouTube è per i video. La piattaforma di streaming audio voleva creare un ecosistema così grande da far salire la marea per tutte le barche. A giudicare dal riassestamento degli ultimi mesi il tentativo però sembra essere già fallito.
Lo YouTube dei podcast
Uno dei motivi principali di questo flop è che lo YouTube dei podcast esiste già ed è lo YouTube che già conosciamo. Lo spiega il grafico qui di seguito che parla del solo consumo di podcast. Basta pensare che la piattaforma video ha più di 2,6 miliardi di utenti attivi al mese per rendersi conto dell’enorme vantaggio di pubblico rispetto ai competitor.
Non è solo una questione di quantità ma anche di funzionalità tecnologiche. Quanti di voi hanno sudato sette camicie per trovare il podcast che stavate cercando su Spotify? E una volta ascoltato non è così semplice ascoltare altri contenuti della serie o prodotti simili. Il motore di raccomandazione di YouTube invece è eccellente e la discoverability dei video è uno dei suoi punti di forza: si potrebbero passare settimane passando di video consigliato in video consigliato.
Il primato di YouTube nel consumo dei podcast si spiega anche nell’evoluzione del format. Molte delle nuove serie di maggior successo sono pensate già in formato video, un passaggio che Spotify ha provato a inseguire con ritardo e poca convinzione. Oggi soltanto alcuni dei podcast esclusivi di Spotify sono disponibili anche in versione video: che si tratti di hit internazionali come Joe Rogan o produzioni nazionali come Brodo dei The Pills.
I tipi di podcast
Potremmo dividere tutti i formati podcast in due grandi categorie. Da una parte quelli più discorsivi e unscripted che vedono spesso la presenza di un ospite intervistato o di più persone intorno ad un tavolo a discutere un argomento. A questa categoria appartengono in Italia i vari Muschio Selvaggio, Cachemire, Tintoria e all’estero titoli come Call Her Daddy o il solito Joe Rogan.
Dall’altra ci sono podcast più strutturati e scripted che hanno una narrazione complessa e approfondita con l’aiuto di un lavoro di sound design. Spesso sono podcast basati sull’attualità o a tema crime, genere incredibilmente popolare. A questa categoria appartengono Indagini de Il Post o Veleno e il Dito di Dio di Pablo Trincia, all’estero un famoso caso di successo è stato Serial, uno dei titoli che ha contribuito alla rinascita dei podcast a livello mondiale.
Mentre la prima categoria è più economica da produrre e editorialmente meno rischiosa (l’ospite famoso aiuta ad emergere) quelli del secondo tipo sono più complessi e costosi oltre che più variabili nel loro andamento e possibilità di successo. A fronte di pochi grandi blockbuster il cimitero dei podcast scripted è pieno di produzioni elaborate e ben curate che però non trovano un proprio pubblico.
Per questo motivo il numero di podcast unscripted è esploso, non a caso proprio questo genere è quello che più facilmente può esistere in una versione video. Per fare un video di Muschio Selvaggio basta accendere una telecamera mentre per trasformare in video un podcast come Veleno è necessario produrre una docuserie con Amazon Prime.
YouTube uber alles
YouTube non se l’è fatto dire due volte e negli scorsi mesi ha aggiunto una sezione del sito dedicata ai podcast. Allo stesso tempo editori e creator hanno capito che essere su YouTube li rende più popolari con un target giovane, che altrimenti non riuscirebbero a raggiungere.
Un sondaggio di Columbus Media ha mostrato come i video siano in grado di attrarre nuovi ascoltatori che altrimenti non consumano podcast. Il video permette di avere più informazioni sul contenuto (le espressioni facciali dei protagonisti e le loro emozioni) ma si può anche decidere di farlo scorrere in sottofondo come faremmo con un semplice audio.
Per raccontare la differenza tra il mondo audio e quello video pensate che nel 2022 tutto il mercato dei podcast vale circa 2 miliardi di dollari mentre YouTube ne ha guadagnati 29 miliardi già nel 2021. Michael Mignano, fondatore di Anchor una delle principali piattaforme di podcast, ha le idee chiare quando scrive che: “Anche se i podcast video non sono un’idea nuova stanno diventando rapidamente la norma e presto saranno la maggioranza del mercato”.
La differenze tra audio e video
Proviamo a fare un elenco dei motivi per cui nel mondo dei podcast il video è destinato a mangiare il mercato di quelli audio:
Gli audio sono difficili da sfogliare. Non riuscendo a vedere il contenuto non capiamo quando arriva la parte che ci interessa davvero e a distinguere i capitoli del racconto. L’audio si può consumare solo in un modo lineare e quindi in maniera poco efficiente. Con gli occhi possiamo fruire un contenuto più velocemente e sappiamo come la rapidità sia un elemento critico.
I podcast video possono essere frammentati in pillole promozionali da diffondere nei social e nelle piattaforme di intrattenimento aumentando la reach del contenuto. Spesso capita di scoprire un nuovo format scorrendo TikTok e poi recuperarlo per intero su YouTube.
I podcast audio hanno un problema di misurazione. Come scrive sempre Andrea de Cesco “A differenza di YouTube, TikTok, Instagram e in generale delle piattaforme social (dove il numero di like e visualizzazioni nella maggior parte dei casi è visibile a tutti), le piattaforme di podcasting i dati sugli ascolti non li pubblicano: non è mai stato fatto in passato e dubito che in futuro qualcuna inizierà a scoprire le carte (Spotify, per esempio, sotto ogni canzone indica quante volte è stata riprodotta, ma non fa lo stesso per i podcast)”.
Il video podcast produce più engagement: non solo si ascolta, ma quando si ha la possibilità lo si guarda anche, mettendo maggiore attenzione sul singolo contenuto e aumentando la connessione tra chi lo produce e il fan. Avere un seguito fedele ed affezionato e costruire una community sono le chiavi per riuscire a monetizzare un contenuto, sia per chi vende pubblicità che per chi produce un prodotto collaterale (le borse di Carpisa di Muschio Selvaggio, la cioccolata di Mr Beast etc etc).
Quando si parla di podcast audio si dice spesso che mentre li si ascolta “si può fare altro”. Proprio quello che è visto come uno dei vantaggi del format è in verità il principale motivo del loro mancato successo, anche dal punto di vista commerciale.
Progetti per il futuro
Non tutti i podcast audio potranno trasformarsi in video. Molti format semplicemente non avrebbero senso in questa nuova veste, la torta dei contenuti solo-audio però è destinata a restringersi mentre quella video ad ampliarsi ulteriormente.
Continueremo ad avere una manciata di podcast audio scripted di alto profilo e successo e altri prodotti di questo genere più piccoli dedicati a nicchie e target specifici.
La maggior parte dei podcast audio di fascia media o bassa però migrerà probabilmente su altre piattaforme, passando ad esempio da Spotify a YouTube.
Per loro la sfida sarà quella di riuscire a cambiare il proprio codice espressivo adattandosi ad un ambiente in cui le cose devono accadere e non soltanto essere raccontate.
Parliamo di contenuti
Grazie al festival Design Terrae che qualche giorno fa mi ha invitato in una locasciòn pazzesca come il Castello della Rancia a parlare di Intelligenza Artificiale.
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Ho già avuto il piacere di presentare Scrolling Infinito in aziende e agenzie come Mondadori e GialloZafferano, Sketchin, Gummy Industries, Imille, Undesign o scuole come IULM, INCOM Università di Bologna, ALMED Università Cattolica e Master Publitalia.
Segnalibri
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è un po’ il dubbio che ho da sempre anche io, anche se tu l’hai razionalizzato molto meglio :)
la mancanza di dati è stato paradossalmente un vantaggio (mi bullo di avere (prodotto/sponsorizzato) un podcast senza dire che lo ascoltano in 2) ma questo alla fine è il rischio maggiore di tutto il settore.
non sono sicuro che youtube sarà la migrazione finale, o l’unica diciamo
Premetto che ho scoperto cosa fosse un podcast nei primi anni Duemila, quando quasi per caso ho fatto il mio ingresso nella prima webradio universitaria italiana. A parlare, quindi, è forse la nostalgia :) Detto questo, credo che l'hype sui podcast passerà, chiaramente sopraffatti dai video: perché stimolare solo l'udito, quando puoi stimolare anche la vista? In fondo si sa che gli esseri umani reagiscono più prontamente quando vedono altri essere umani: anche solo questa consapevolezza basterebbe a decretarne il destino.
Ma credo che, al di là di argomenti analitici e molto efficaci (come ad esempio la mancanza di dati), il podcast sia uno dei tanti esempi di asset digitali che, a un certo momento, sono stati riscoperti, diventati "di moda" e democratizzati (tutti possono creare un podcast, tutti ormai scrivono un libro, ecc.) Mi viene in mente quando qualche anno sono "scoppiate" le GIF sull'onda dei meme, quando in realtà parliamo di un formato che risale alla fine degli anni Ottanta.
I podcast possono essere un mezzo meraviglioso da fruire quando facciamo attività manuali, reiterate, che non hanno bisogno di molti neuroni (pulire, cucinare, guidare su strade che conosciamo): ecco che allora quei neuroni li possiamo dedicare all'ascolto.
In definitiva: io spero che ne sopravvivranno pochi, ma buoni ;)
P.S. Grazie per questo tuo interessante approfondimento!